(di Francesca Capoccia)

Nel mese di febbraio l’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ha rilasciato l’aggiornamento periodico dei principali indicatori demografici, basato sull’analisi dei movimenti avvenuti durante il 2019 e sulla fotografia della popolazione italiana al 1 gennaio 2020.
I dati confermano il calo demografico osservato negli anni recenti: sono circa 116mila in meno gli italiani al 1 gennaio 2020 rispetto al 2019. Questa diminuzione è da ricondursi al continuo aumento della forbice tra natalità e mortalità e al rallentamento dei flussi migratori netti con l’estero. Di conseguenza continua il progressivo invecchiamento della popolazione; l’età media degli italiani ha raggiunto i 45,7 anni e la percentuale di anziani (65 anni e più) il 23,1.

Stiamo dunque vivendo un periodo molto problematico anche per la forte denatalità, per la scarsa tutela della genitorialità e per lo scarso valore dato alla maternità. Questo continuo calo demografico è un indicatore che mostra la nostra società in crisi: non si vuole investire e puntare sulle nuove generazioni, così come manca la volontà di disegnare un futuro ed essere una società costruttiva.
Bassa natalità e invecchiamento della popolazione sono un ostacolo economico che porterà il Pil a diminuire. La rivista Lancet segnala la fecondità come una sfida globale: “cercare di aumentare il tasso di fecondità creando un ambiente favorevole alle donne per avere figli e proseguire la loro carriera”.

In una delle nostre ultime newsletter, Il valore dimentico delle donne, abbiamo parlato di come la pandemia ha accentuato, e continua a farlo, i divari di genere. Il tasso di occupazione femminile in Italia è tra i più bassi d’Europa, pari al 50,1%, e il bilancio del Covid19 sul mercato del lavoro, ancora del tutto parziale, vede tra il secondo trimestre 2020 e lo stesso periodo dello scorso anno 470 mila occupate in meno: un calo del 4,7%.

In Italia molte donne rinunciano alla carriera professionale quando si ritrovano a scegliere tra lavoro e impegni famigliari (il 37% delle donne tra i 25 e i 49 anni con almeno un figlio risulta inattiva, percentuale che sale all’aumentare del numero di figli, fino al 52,5% delle donne con tre o più figli inattive). E’ difficile raggiungere una stabilità tra gli impegni lavorativi e quelli famigliari, e la conseguenza è che, in caso di impossibilità di accedere agli strumenti di tutela o laddove essi non siano sufficienti, molte mamme rinunciano alla vita lavorativa.
Questi due risultati sono la conseguenza di forti discriminazioni radicate nel mondo del lavoro, di squilibri nei carichi famigliari tra madri e padri e di poche possibilità di conciliare gli impegni domestici con il lavoro.
Come emerso dalle testimonianze raccolte da Save The Cildren, molte donne in Italia una volta rimaste incinte hanno subito discriminazioni sul lavoro, oppure fanno fatica insieme ai loro compagni a usufruire dei diritti e delle tutele previste.

Inoltre, il peso principale del lavoro non retribuito continua a ricadere sulle donne, con un carico domestico che si è moltiplicato a causa del confinamento, della chiusura delle scuole e della cessazione delle varie attività di sostegno alla cura e all’assistenza disponibili prima del virus, vedendosi costrette ad accettare di rendere più flessibile il proprio lavoro per potersi prendere cura degli altri.
La distribuzione del tempo sociale, del lavoro e della cura deve quindi essere ripensata, dal momento che sono le donne a subire una penalizzazione nell’ambito lavorativo per essere diventate madri o che, per evitarlo, decidono di rinunciare alla maternità
Come sottolinea The Lancet, la cura deve essere vista come una responsabilità sociale di tutti e non solo delle madri. È necessario un cambiamento di paradigma che non sembra imminente e che potrebbe essere ulteriormente ritardato dalla pandemia del Covid19.

L’Unione Europea, nel rapporto Next Generation EU (NGEU), il programma di rilancio e risposta alla crisi pandemica, indica la parità tra uomo e donna nel processo decisionale come target-chiave, che va perseguita integrando la dimensione di genere in tutte le politiche, in tutti i programmi. Anche in Italia la parità di genere sembra essere considerata strategica nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) sull’uso delle ingenti risorse in arrivo dalla Commissione europea. Il problema è che, come sottolinea la rivista online In Genere questa strategia si riduce a una delle componenti delle sei missioni con le quali il piano si dovrà attuare: nello specifico, nella missione numero 5, “parità di genere, coesione sociale e territoriale”. Tra l’altro, non si sa ancora il numero di donne che saranno presenti nel direttorio che deciderà e gestirà i fondi in questione.
Le donne vengono ancora una volta considerate un problema a sé, ma non considerare la parità come asse principale attraverso lo sviluppo dell’occupazione e di un piano straordinario di infrastrutture sociali, significa impoverire tutti.

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