di Francesca Capoccia

Sono ormai diversi mesi che l’Italia, insieme alla maggior parte del resto del mondo, si è trovata in una situazione di emergenza sanitaria, che di conseguenza si è trasformata in una crisi economica. I più fortunati hanno mutato il proprio salotto nell’ufficio da lavoro, con la famosa modalità smart working. I malcapitati, invece, hanno visto ferie obbligatorie, cassa integrazione, sospensione dell’attività lavorativa e, nel caso peggiore, licenziamenti.
Ora che ci siamo già addentrati nella “fase due”, che prevede una graduale ripresa dell’attività economica, non dobbiamo dimenticarci dei giovani, il nostro presente e futuro. E lo dobbiamo fare ora, o sarà troppo tardi.

Secondo un sondaggio condotto da IZI in collaborazione con Comin & Partner sui giovani e il futuro in merito alle conseguenze prodotte dalla diffusione del coronavirus nel nostro Paese, un giovane italiano su due è pessimista sul proprio futuro, più di un quarto dei giovani italiani prevede che svolgerà lavori meno retribuiti, mentre uno su quattro teme un lungo periodo di disoccupazione.
Dal sondaggio emerge che una minima parte degli intervistati è ottimista, mentre prevale un atteggiamento di sfiducia, quasi di rassegnazione e di presa di coscienza di doversi adeguare passivamente al nuovo mercato del lavoro. La situazione economica nazionale e internazionale è al primo posto fra le preoccupazioni dei giovani; infatti, la situazione del lavoro in Italia (in particolare quella giovanile) resta critica e l’Italia continua a schiacciare le giovani generazioni, che si aspettano maggiori stanziamenti da parte del Governo per aiutare le imprese, sperando in nuovi posti di lavoro.

Negli ultimi anni sono aumentati i lavoratori con contratti a termine, che vivono quindi in una condizione di maggiore instabilità rispetto al proprio posto di lavoro; è peggiorata la situazione lavorativa dei giovani, che registrano livelli di occupazione inferiori a quelli dei lavoratori anziani e c’è un’alta percentuale di neet, ragazzi che non studiano e non lavorano.
Le aziende, piuttosto che investire su crescita e sviluppo, miglioramento di prodotti e servizi attraverso il capitale umano e la capacità di innovazione delle nuove generazioni, sono state incentivate a tenere basso il costo del lavoro e sfruttare il più possibile i nuovi entranti. Si è preferito così prendere il giovane disposto a farsi pagare di meno che quello con potenzialità su cui investire per migliorare produttività e competitività dell’azienda, favorendo un sistema che si è diretto verso il basso, producendo allo stesso tempo scarse opportunità per i giovani, poca crescita e un aumento di diseguaglianze sociali e generazionali.

Il problema è a monte e riguarda il ruolo che il nostro paese vuole dare ai giovani. Oltre che economica e di politiche del lavoro, la questione ha anche una dimensione esistenziale, culturale e sociale: è ora di considerare i giovani un bene collettivo su cui investire, come avviene negli altri paesi europei, e non come un figlio che il genitore vuole proteggere. Bisogna agire per mettere i giovani nelle condizioni di poter costruire un proprio progetto di vita e realizzare pienamente i propri obiettivi. Il lavoro deve essere inteso come valore, opportunità di crescita per le persone, le imprese, la collettività, il territorio, il Paese, e occorre mettere al centro la persona, porre attenzione ai suoi bisogni individuali e familiari, come il conciliare vita e lavoro e la crescita professionale.

A tal proposito, i più giovani sembrano avere le idee più chiare rispetto alle generazioni precedenti. Uno studio rivela come la generazione Z (che comprende i nati tra il 1995 e il 2012) ha indicato come priorità per trovare lavoro nell’ordine: la capacità di adattarsi, l’acquisizione di competenze avanzate digitali, un titolo di studio. Ciò spiega la consapevolezza che i giovani hanno del mondo in cui viviamo, un mondo che cambia continuamente, che un titolo di studio è importante per trovare un lavoro ma che non basta e c’è bisogno di formarsi continuamente, di aggiornarsi, di rimettersi in discussione ed essere intraprendenti.

Ma uno dei limiti del mercato del lavoro italiano è l’incapacità di dialogo tra sistemi formativi e imprese, così che i giovani entrano in contatto con il mondo del lavoro più tardi rispetto ai coetanei europei, e dotati di competenze non richieste dalle imprese. Infatti, la metà dei lavoratori italiani è sotto o sovra-qualificata, fa cioè un lavoro non corrispondente al proprio titolo di studi, perché la sua occupazione richiede competenze che non ha, oppure richiede meno competenze rispetto a quelle che ha acquisito nel suo percorso di studi. Secondo la docente di sociologia dei processi economici e del lavoro alla Bicocca di Milano, Giovanna Fullin, la differenza tra richiesta del mercato del lavoro e competenze offerte dalle nuove generazioni è causata dalla presenza di una struttura produttiva e una domanda di lavoro poco qualificata, a fronte di un’offerta di lavoro molto qualificata.

I giovani, non ricevendo abbastanza informazioni sul funzionamento del mercato del lavoro, non conoscono le competenze più richieste. Per questo bisognerebbe ripensare l’istruzione secondaria superiore e universitaria e incentivare una formazione dedicata alle aziende in modo tale da favorire l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, dando loro prospettive concrete di carriera, e aiutare le imprese a individuare i profili professionali di cui hanno bisogno.
Le imprese, infatti, invece che pretendere che la scuola formi persone con le precise qualifiche che servono loro, dovrebbero collaborare sfruttando l’alternanza scuola-lavoro, offrendo laboratori, tirocini, stage, e pensare alla formazione all’ingresso come una loro specifica attività, tenendo comunque sempre conto che sarà necessario essere duttili, avere le capacità, e le conoscenze di base, necessarie per apprendere cose nuove. Compito dell’imprenditore è quello di liberare le energie e far fiorire i talenti professionali, prevedere i bisogni futuri ma saper ascoltare anche quelli presenti, svolgere un ruolo etico di guida e di modello per giovani inesperti del mondo del lavoro.

Le ‘incertezze dei giovani’ rappresentano dei forti segnali di bisogni attuali e futuri espressi dai giovani che devono essere recepiti dal sistema formativo, dal mercato del lavoro e dalle imprese.
Le buone pratiche sociali dei giovani, riportate qui di seguito, sono la dimostrazione di come i giovani siano una risorsa preziosa da non perdere, e di quanto siano disposti a mettersi pienamente in gioco e far emergere le loro migliori qualità, nonostante la necessità e il bisogno di essere accompagnati verso il mondo del lavoro.

 


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