di Maria Antonietta Sassani

C’era una volta un Paese dove non esistevano discriminazioni di genere; il lavoro era retribuito in modo uguale per tutti, capacità e competenze erano riconosciute a tutti senza distinzioni, i servizi sociali consentivano di conciliare lavoro, famiglia e tempo libero, le ragazze potevano andare dove volevano senza essere importunate (perfino se indossavano una minigonna!) e se una donna si imbatteva in una relazione pericolosa poteva uscirne senza alcun timore.
Ovviamente è un Paese da favola, perché la realtà è molto diversa.
Nel Paese reale, le donne guadagnano mediamente circa il 30% in meno degli uomini, ricoprono solo un terzo delle posizioni di leadership, il lavoro di cura grava essenzialmente sulle loro spalle e, peggio di tutto, continuano ad essere vittime di ogni tipo di violenza.
Ogni giorno le cronache ci riportano storie terribili di donne umiliate, aggredite, maltrattate, sfregiate, violentate e, troppo spesso, uccise crudelmente.
E ancora una volta ci prepariamo a celebrare il 25 novembre, giornata internazionale contro la violenza sulle donne, dovendo prendere atto che questo fiume di brutalità che travolge tante donne non si riesce ad arginare.
Ancora una volta il 25 novembre sarà l’occasione per incontri, convegni e tante pregevoli iniziative di studio e di analisi della violenza di genere ormai considerato un vero fenomeno sociale, posto che il 31,5% delle donne di età fra 16 e 70 anni dichiarano di aver subìto qualche forma di violenza.
Un fenomeno tristemente noto, esaminato e studiato in ogni aspetto, da quello storico a quello culturale, da quello socio-economico a quello statistico, ma per il quale ancora non si è trovato rimedio.
Non possiamo dire che sono mancate le leggi, perché davvero nel nostro Paese sono molte le norme che dovrebbero garantire la sicurezza delle donne, ma che evidentemente, non sono efficaci e se ne cerchiamo la ragione, dobbiamo concludere che le ipotesi sono, logicamente, solo due: o sono leggi solo “di facciata” che non trovano concreta applicazione, ovvero sono leggi teoricamente applicabili ma in pratica disapplicate senza che nessuno se ne occupi.
A ben vedere, ci può essere anche una terza categoria: leggi la cui applicazione è così difficoltosa da renderle di scarso impatto.
Pensiamo, ad esempio, al cosiddetto “codice rosso” (legge n.69/2019), dove, oltre all’introduzione di nuovi reati e all’inasprimento di pene per reati già codificati, sono previste, dal lato processuale, corsie preferenziali per le indagini, fra cui l’obbligo di ascoltare la vittima entro tre giorni dalla denuncia.
E’ evidente che l’intenzione di accelerare i tempi del processo si scontra con alcune criticità di non poco conto; infatti, da un lato i tempi troppo brevi per le indagini comportano un maggiori rischio di errori giudiziari o di scarsi approfondimenti, con una conseguente minor tutela della vittima, mentre, d’altro lato, la stessa vittima potrebbe, dopo la denuncia presentata nell’immediato, avere difficoltà ad essere ascoltata  dal magistrato subito dopo, poiché  è stato dimostrato che molte delle donne vittime di violenze riescono a parlarne solo dopo un certo tempo.
Indubbiamente l’applicazione di una legge che da un lato tocca aspetti personali delicatissimi e che dall’altro è improntata a criteri di razionalità, presenta molte difficolta, ma il vero limite del “codice rosso” è nella stessa legge, dove (art. 21) è previsto che non deve comportare alcun onere aggiuntivo a carico della finanza pubblica.
La inevitabile conseguenza è che se non si assegnano più risorse, anche questa legge darà pochi risultati, senza contare che la priorità data al “codice rosso” potrebbe portare a trascurare altri reati, con minor tutela di altre vittime.
Allo stesso modo, tante altre leggi, che prevedono misure di sostegno alle vittime della violenza di genere, se non saranno finanziate adeguatamente resteranno solo sterili enunciazioni prive di effetti.
Penso, ad esempio, al patrocinio gratuito in deroga ai limiti di reddito, alla possibilità per le dipendenti pubbliche di ottenere rapidamente il trasferimento in un altro comune, alla fruizione, per le dipendenti pubbliche e private di una temporanea astensione dal lavoro (retribuita), all’indennizzo spettante alle vittime di reati violenti, alle norme a favore degli orfani per crimini domestici, al “reddito di libertà” per le donne inserite in percorsi di supporto.
Ma, oltre alle misure di ristoro e di sostegno a favore delle vittime, si dovranno destinare risorse anche per garantire la sicurezza delle donne  e per serie misure di prevenzione.
Si dovranno avviare attività formative per gli operatori del settore, attivare veri percorsi di recupero dei colpevoli (con risultati da verificare), promuovere una più tempestiva e più attenta valutazione dei rischi, adottare misure cautelari e di prevenzione efficaci e sperimentate (non bastano certo i braccialetti elettronici, non obbligatori e soggetti a continui malfunzionamenti che hanno causato danni irreparabili).
Ancora, si dovrà dare più supporto ai centri antiviolenza ed alle case protette, per garantire l’incolumità delle vittime di violenze e dei loro figli.
A questo proposito, mi ha colpito, di recente, la decisione di alcune donne che non hanno voluto recarsi in una casa protetta, ritenendo ingiusto che sia la vittima a doversi “nascondere” ed a doversi difendere subendo il disagio di un radicale cambiamento della propria vita, mentre si dovrebbe mettere il colpevole in condizioni di non nuocere.
Ho trovato positivo e coraggioso questo moto di ribellione, questo slancio verso la ricerca di una autonomia che non può essere limitata dalla violenza ed ho visto il loro comportamento come il segno che le donne, ben consapevoli del loro diritto ad essere protette, cominciano a chiedere forme di tutela più rispettose della loro libertà, spostando sul colpevole il peso di vincoli e restrizioni.
E sarebbe giusto, perché è più che legittima la richiesta di poter scegliere la propria vita senza paura e senza condizionamenti, in un contesto di rispetto della parità e senza discriminazioni di genere.
In sintesi, possiamo dire che le donne vorrebbero semplicemente vivere nel mio Paese da favola, che, in realtà, è solo la rappresentazione di un Paese civile.
Bologna, 25 novembre 2024
foto di Rosy / Bad Homburg / Germany da Pixabay

 


#SEIONONVOGLIOTUNONPUOI

🎗 Se io non voglio, tu non puoi
In occasione del 25 novembre, Giornata Internazionale per l’eliminazione della Violenza sulle Donne, la Fondazione Una Nessuna Centomila lancia una campagna forte e chiara: il consenso non è una concessione, è un diritto.
🔴 Ogni giorno troppe donne si sentono giudicate, colpevolizzate o abbandonate di fronte alla violenza subita. Quante volte si è cercato di giustificare uno stupro con frasi come “Perché non ha reagito?” o “Ma come eri vestita?”
❌ Basta col rovesciamento delle responsabilità. Un “NO” deve essere ascoltato. Il silenzio NON è un assenso.

 

 


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