a cura del prof. Federico Licastro

 

I pazienti con demenza e i loro care givers al tempo del COVID 19

Il 21 settembre si è celebrata la giornata mondiale dell’Alzheimer.

A causa però della persistente pandemia da COVID 19 le consuete riunioni, conferenze e congressi si sono svolte prevalentemente on-line.

Il Covid 19 è stato un grande stress test

Il Covid 19 è stato un grande stress test che ha messo in evidenza le debolezze del nostro sistema sociale, sanitario, economico e politico ed è a sua volta stato generato dalle contraddizioni insite nello stile di vita prevalente e globalizzato assunto dalla specie umana.

Il lockdown e chiusura delle strutture di assistenza per malati con la demenza o la malattia di Alzheimer

Sono andate sotto stress le strutture ospedaliere durante la prima fase acuta della pandemia e sono state chiuse durante il lockdown quasi tutte le strutture di assistenza per malati con la demenza o la malattia di Alzheimer. Ad esempio, sono stati chiusi i centri diurni da febbraio a giugno 2020 con una riapertura differenziata da regione a regione.

I malati assistiti nelle RSA o nelle altre case di cura hanno vissuto un isolamento profondo dovuto al confinamento dal mondo esterno per limitare il diffondersi del virus fra gli operatori e i ricoverati.

Tuttavia, il confinamento in un primo momento è stato tardivo e incompleto e il prezzo pagato comunque in vite umane in Italia è stato molto alto, circa 36000 deceduti.

Inoltre, la mortalità causata dal COVID 19 nelle RSA e nelle strutture di ricovero per anziani è stata molto alta soprattutto nelle regioni e nelle provincie in cui il virus era più diffuso.  Le cifre reali di questa strage fra i nostri anziani sono ancora provvisorie e molti anziani deceduti per le patologie pregresse spesso sono morti anche per l’infezione virale che però non è stata possibile documentare in forma certa.

Fra le vittime del COVID 19 nelle RSA e nelle case di riposo sono moltissimi i pazienti con deterioramento cognitivo, demenze e malattia di Alzheimer.

Gli effetti della pandemia da COVID 19 sui malati con demenza e i loro caregiver

Cercherò di dare una fotografia scientifica di come il COVID 19 ha modificato la vita e causato il peggioramento clinico o la morte dei pazienti con pregressa diagnosi di demenza e degli effetti della protratta chiusura dei servizi assistenziali sui pazienti e i loro care givers.

Se si fa una ricerca su PUBMED, il data base elettronico delle pubblicazioni mediche mondiali, si può vedere che mettendo le parole chiave COVI 19 e DEMENZA sono presenti ben 162 articoli scientifici pubblicati negli ultimi sei mesi sulle riviste internazionali di lingua inglese.

Quali sono le osservazioni più rilevanti che riguardano gli effetti della pandemia da COVID 19 sui pazienti con demenza e i loro care givers?

In un articolo pubblicato sull’ International Journal of Geriatric and Psychiatry (1) si è indagato sugli effetti della chiusura dei servizi socio-sanitari dedicati ai malati con demenza in Inghilterra da aprile a maggio 2020.  Gli autori hanno effettuato 569 interviste telefoniche riscontrando un significativo calo delle ore di assistenza erogate ai pazienti e una forte diminuzione dell’accesso ai servizi assistenziali che hanno comportato un peggioramento della qualità della vita dei pazienti.

Gli autori suggeriscono di ricorrere ad altri formati assistenziali per assistere in modo più adeguato i pazienti durante i possibili futuri parziali o totali lockdown indotti da un peggioramento dell’epidemia.

Quali possono essere i servizi assistenziali alternativi già sperimentati durante questa pandemia?

La risposta ci viene da un altro studio pubblicato sull’American Journal of Geriatric and Psychiatry in agosto del 2020 (2). Gli autori hanno effettuato chiamate telefoniche e chiamate in videoconferenze sia ai pazienti con demenza che ai loro care givers. I risultati di queste frequenti chiamate da parte di operatori qualificati dei servizi sociosanitari sono stati di rassicurare e aumentare la qualità della vita sia dei pazienti che dei loro care givers.

Numerosi sono gli articoli in cui si è valutato gli effetti sulla qualità della vita, la morbilità e la mortalità indotta dalla pandemia da COVID 19 nei pazienti con demenza e in quelli con la malattia di Alzheimer.

Un articolo pubblicato il 14 settembre sulla rivista Psycogeriatric (3) segnala che l’isolamento in casa dovuto ai lockdown dei mesi da febbraio a maggio e il conseguente distanziamento sociale hanno causato un serio peggioramento dei sintomi comportamentali e psicologici dei pazienti con demenza residenti a casa in USA.

Uno studio di un gruppo italiano pubblicato su Aging Clinical and Experimental Research il 12 settembre (4) segnala il forte impatto del COVID 19 sui pazienti residenti a casa nella Lombardia orientale.  I pazienti o i rispettivi care givers sono stati contattati con intervista telefonica (n= 848) a fine aprile; di questi 95 avevano sintomi riferibili all’infezione da COVID19, mentre gli altri no. I pazienti con probabile infezione da COVID avevano una frequenza più alta di diabete, di COPD, una frequenza più bassa della vaccinazione antiinfluenzale, una ospedalizzazione più alta e una mortalità aumentata.

Uno studio effettuato a San Francisco in pazienti con demenza viventi in istituto pubblicato il 15 settembre 2020 (5) sul Journal of General Internal Medicine segnalava che la mortalità nei pazienti con diagnosi pregressa di demenza era molto elevata (46%).

Una condizione clinica ad alto rischio di demenza è costituita dalla sindrome di Down o trisomia del cromosoma 21. Uno studio italiano pubblicato il 12 settembre sull’American Journal of Medical Genetics A (6) ha segnalato che nei portatori della sindrome di Down la mortalità da Covid 19 era più alta e l’età di morte più bassa rispetto alla popolazione generale.

Un altro studio pubblicato sul British Journal of Psychiatry Open pubblicato il 3 settembre (7) segnala che negli anziani l’infezione da COVID 19 aumenta la probabilità di presentare deterioramento cognitivo e quelli con alterazioni cognitive già presenti avevano dopo l’infezione da COVID 19 una prognosi peggiore e una mortalità più alta.

Anche la genetica gioca un ruolo nell’infezione da questo virus.  Uno studio pubblicato in luglio 2020 (8) sul Journal of  Gerontology  A Biololy and Medical Science  mostra che i portatori del genotipo APOE 4,4 della apolipoproteina E avevano una mortalità 4 volte più alta dei portatori dell’altro genotipo APOE 3,3.  Sfortunatamente il genotipo APOE 4,4 predispone anche all’Alzheimer, quindi i pazienti con la demenza e il genotipo APOE 4,4 sono particolarmente fragili per questo virus e la mortalità probabilmente molto alta.

Infine, un articolo apparso sul Journal of Alzheimer Disease Report di luglio (9) denuncia che i pazienti con demenza e i loro care givers hanno pagato e pagheranno il prezzo più alto a causa dei lock down assistenziali avvenuti e quelli a venire.

Questa è una piccola parte della fotografia impietosa che ci offrono i dati scientifici disponibili sull’influenza del COVID19 sui malati con demenza e i loro care givers.

Che previsioni possiamo fare per il futuro prossimo visto che l’epidemia non è affatto superata?

Abbiamo superato in Italia la fase 1 e quella 2. Come avvieremo la ricostruzione economica? Quali innovazioni sceglieremo? Quali modelli di welfare introduremo? Andremo avanti in una continuità falsamente rassicurante? Cesseremo lo scempio ambientale?

Il capitale si scoprirà un’anima e una vocazione sociale?

Continueremo ancora a sopportare un sistema paese in gran parte fin qui evanescente e inconcludente?

Quante risorse stiamo già sperperando nella gestione disordinata di questa emergenza?

Emergerà una cittadinanza più attiva che si riappropri della vita civile e voglia svolgere un ruolo nuovo nella vita sociale e politica del paese?

Queste sono solo alcune delle domande che ogni cittadino deve porsi e trovare le risposte.

Ciò di cui abbiamo bisogno è soprattutto un patto fiduciario rinnovato fra cittadinanza e istituzioni, se collettivamente vorremo uscire rinnovati dalla pandemia e costruire un’Italia rinnovata in una nuova Europa e in un mondo meno irrazionale.

Per quanto riguarda la protezione delle fasce più fragili della nostra popolazione non possiamo più ripetere gli errori commessi.  Abbiamo bisogno di strumenti nuovi per superare o almeno contenere l’isolamento sociale e la privazione assistenziale, che si sono dimostrate letali per alcune categorie di cittadini.

La telemedicina può essere una risposta parziale.

Il rafforzamento della medicina territoriale o meglio un suo profondo ripensamento e l’apporto di finanziamenti adeguati a questo settore sanitario possono essere strumenti appropriati.

Arrivare allo sviluppo del vaccino anti COVID 19 e investire nello studio dei virus e dei batteri; sviluppare farmaci e vaccini adeguati dovranno essere le priorità per la medicina del terzo millennio.

Infine, la prevenzione delle malattie cronico degenerative che ci rendono fragili e più esposti alle infezioni dovrà divenire il nuovo paradigma culturale a cui il sistema sanitario nazionale dovrà ispirarsi per rendere più forte la popolazione e meno probabili gli effetti più deleteri delle pandemie.

 

Bibliografia:

  • J Geriatr Psychiatr. Sept 18, 2020 doi: 10002/gps.5434.
  • Am J Geriatr Psychaitr Aug 8, 2020 doi: 101016/ j.jaap.2020.07.019.
  • Psycogeriatrics Sept 14, 2020 doi: 101111/psyg.12608.
  • Aging Clin Exp Res Sept 12, 2020 doi: 10.1007/s40520-020-01676-z.
  • Gen Int Med Sept 15, 2020 doi:10.1007/s11606-020-06200-1.
  • Am J Med Genet A Sept 12, 2020 doi: 10.1002/ajmg.a.61867.
  • B J Psych. Open Sept 3, 2020 doi: 10.101192//bjo.2020.87.
  • J Gerontol A Biol Sci July 4, 2020 doi: 10.1093/gerona/jlaa169.
  • J Alzheimer Dis Rep July 6, 2020 doi: 10.3233/ADR-200 193.

Foto di PixaBay

 

 


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