di Martina Ghezzi

In sottofondo i Primal Scream, Loaded

Una tazza di caffè e il computer acceso. Il salone di casa è la mia nuova postazione lavorativa per questi giorni di reclusione. Gli alberi sui viali hanno cominciato a mettere le foglie. La primavera, arrivata silenziosamente sabato 21 Marzo, va avanti, ma noi ci siamo fermati, come cristallizzati in giornate diventate ufficialmente tutte uguali. Ebbene, siamo entrati nella terza settimana di questa quarantena, e se all’inizio la situazione mi pareva così surreale e strana da non sembrare vera, ora sono talmente abituata alla monotonia che la normalità assume tratti surreali, quasi incomprensibili.

Sono tutte mie fantasie o queste cose sono esistite davvero?

Il corso serale di teatro, le uscite di martedì sera per andare a vedere le partite di Champions League al pub, il sapore di uno spritz annacquato bevuto sulle scale in Piazza Maggiore, la passeggiata giornaliera per andare al lavoro, gli sconosciuti che cantano e suonano in piazza San Francesco.

Sto – ovviamente – esagerando, non è vero che mi sono dimenticata di tutte le cose belle che potevamo fare quando uscire di casa era la cosa più normale del mondo.

Forse mi sto piano piano dimenticando la sensazione di fare tutte queste cose, le emozioni provate a vivere davvero e a pieno queste esperienze, per quanto grandi o piccole che siano. Certo, viviamo in un’epoca e in un paese in cui riuscire a “vedersi” nonostante una quarantena e un’epidemia in corso risulta molto facile.

Mai come in questo momento ringrazio la tecnologia

Mi permette di vedere i miei amici e la mia famiglia, confinati e isolati in una Bergamo sempre più stremata da questo virus intenzionato a prosciugarne ogni forza. Non sto vivendo in prima persona la sofferenza della mia città perché, per studio, mi trovo a Bologna.

Mi ritengo tra quelli fortunati, ho due coinquilini con cui affrontare le giornate di reclusione e una famiglia sana, seppur distante. Ciononostante, vedere le immagini rimbalzate in tutto il mondo dell’esercito che porta in altre regioni i feretri – perché non c’è più spazio nel crematorio del cimitero principale di Bergamo – gela il sangue. Forse è il sentirsi impotenti davanti a una situazione del genere che non riesco ad accettare: non c’è davvero molto da fare, se non aspettare.

E io aspetto

Aspetto, come se da un momento all’altro il presidente Conte o chi per lui spunti alla TV e dica “Ehi ragazzi, era tutto uno scherzo, un esperimento, siete liberissimi di uscire e tornare alle vostre vite normali”. Ma non è un enorme scherzo. È tutto vero.

Le persone muoiono, a centinaia ogni giorno e la fine di questo incubo sembra sempre più lontana. E anche se prima o poi una data di fine quarantena verrà comunicata, quanto ci vorrà prima che le persone tornino alle loro vite normali, ?

Prima che le persone ricomincino ad uscire per davvero, ad incontrarsi per le strade, a prendere treni per andare lontano, per viaggiare, per ricominciare ad abbracciarsi.

Quanto tempo passerà?

È questo che mi spaventa di più, il ritorno graduale alla vita che abbiamo conosciuto.

Oggi voglio essere ottimista, lo sono sempre e – nonostante tutto – voglio continuare ad esserlo. Credo fermamente che da questa situazione ci rialzeremo il più in fretta possibile, con un nuovo senso di unione, di umanità, e chissà forse di speranza. E grideremo, nelle parole dei Primal Scream:

We wanna be free, we wanna be free to… to do what we wanna do. And we wanna have a good time. And that’s what we are going to do. We’re gonna have a good time. We’re gonna have a party!

(Vogliamo essere liberi, vogliamo essere liberi di… di fare quello che vogliamo. E vogliamo divertirci. Ed è questo quello che faremo. Ci divertiremo. E faremo una festa!)

Foto di Andrian Valeanu da Pixabay


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