A cura di Agnese Cheli

Ho passato, fino a pochi mesi fa, la mia vita fuori di casa per lavoro.

Un lavoro che mi ha molto coinvolta. Ora sono una neo-pensionata e stavo giusto chiedendomi come avrei organizzato questo radicale cambiamento nella mia vita.

Non ho scelto io. Ha scelto Lui: il Coronavirus.

“Lui” con lettera maiuscola, poiché stiamo parlando di un microorganismo capace di sferrare colpi micidiali all’intero sistema umano, come possiamo constatare.

Le mie reazioni hanno attraversato (e stanno attraversando) fasi diverse: inizialmente ho sottovalutato la portata dell’epidemia: una reazione umana naturale nei casi di traumi collettivi (“Non può essere vero…”), la fase di negazione, di evitamento.

Poi, di fronte alla realtà epidemica, una seconda fase di vera e propria insofferenza e arrabbiatura (“Perché proprio ora che posso appropriarmi della libertà tanto agognata?”): quella che si chiama fase reattiva. Successivamente mi sono sentita impotente e frastornata, passando per la fase di realizzazione (“È così, non posso farci niente”). Infine, una fase riflessiva (“E adesso come organizzo la mia vita, alla luce dei vincoli imposti?).

Il pensiero si è concentrato sulle tecniche da me apprese in ambito psicotraumatologico durante la mia lunga esperienza professionale. Si, perché a mio avviso si tratta di un trauma, collettivo in questo caso.

Un trauma è un evento percepito come soverchiante, che ci coglie impreparati nell’affrontarlo (infatti non c’è ancora un vaccino).  Non a caso ho reagito difensivamente (vedi le fasi appena descritte sinteticamente) come la maggior parte delle persone fanno. Fanno parte del nostro patrimonio filogenetico ma spesso non lo sappiamo e quindi fatichiamo a dar loro un senso.

Quando ci troviamo di fronte a un ostacolo pauroso, le nostre reazioni sono o di fuga (nel mio caso con l’evitamento e la minimizzazione del fenomeno Covid) con l’attacco (a me la rabbia è arrivata successivamente) o con il congelamento (ci si blocca e si smette di agire – questo non fa parte del mio temperamento). Non c’è una reazione migliore di un’altra. Dipende dal carattere, dall’ambiente e dalle risorse che offre.

Attingendo dalla mia “cassetta degli attrezzi” e conoscendomi abbastanza bene (sono dotata di buone capacità reattive e sono tendenzialmente ottimista), come prima accennavo, ho scelto di concentrarmi sulla mia casa: un luogo tutto sommato trascurato dal mio lavoro.

Ho pensato che questa fosse un’opportunità di prendermi cura del mio “nido” dopo tanto tempo, anche in modo creativo imparando a restaurare alcuni vecchi mobili. Questo mi ha aiutato a non pensare o, più precisamente, a ritualizzare un cambiamento inevitabile

Sì, perché se apriamo cuore e orecchi, Lui (quel microrganismo del Coronavirus) ci sta comunicando molte cose importanti: “Dove corri così di fretta, essere umano? Smetti di devastare e sfruttare questo ecosistema. Se ti serve una lezione (e all’essere umano serve tanto) eccola ben servita…

Ci rendiamo conto che è bastato un uomo, probabilmente un pover’uomo che ha mangiato una zuppa di pipistrello, a mettere in ginocchio un intero pianete e tutta la sua tecnologia? Già, quell’uomo, chissà se è sopravvissuto, mi chiedo mentre restauro un mobile.

L’aspetto più doloroso, per quel che mi riguarda, è legato all’impossibilità di incontrare la mia anziana madre, gravemente invalida e quindi (fortunatamente) ospite di una struttura protetta molto valida. Ho paura che possa mancare senza che io possa abbracciarla, consolarla e guardarla negli occhi.

Cosa mi consola? Il ricordo di tutti i momenti in cui sono stata con lei, autenticamente intendo, non “tanto perché ci dovevo stare”.

La mia mamma è lucida in un corpo che non risponde più e con la sua forza mi incoraggia. Sto affrontando abbastanza bene questa epidemia, tutto sommato. Penso di assomigliare a mia madre!

 

Foto di Dimitris Vetsikas da Pixabay


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