a cura di Joana Preza
Sono stata colta dalla quarantena i primissimi giorni del mio trasferimento in studentato, a Firenze. Prima che tutto ciò accadesse ero preoccupata riguardo agli orari del secondo semestre: si prevedano giornate intere di lezione, dalle nove alle diciassette e addirittura il sabato mattina.
Ogni cosa è slittata
È slittata a data ancor da vedere e l’accoglienza nel nuovo quartiere Varlungo si è dilatata. Un’accoglienza ferma però, misurata in brevi tragitti e perimetri, fatta di deserti di parole che tornano indietro. Mi educa, dunque, la quarantena a vivermi prima gli spazi interni, le camere, gli altri studenti della struttura, a festeggiare ogni millimetro di crescita delle piante, a portare a termine soprattutto lavori personali e che avevo tralasciato o rimandato, e rispolverare vecchi rituali. Ho riscoperto un quaderno dove segnavo a mano le frasi dei libri presi in prestito dalla biblioteca. Scrivevo addirittura la brutta copia per poi riportarla in bella successivamente. Una sorta di meditazione dunque in un quaderno scritto a mano, ancora da terminare.
Firenze, città che abito ma non conosco
Convivo con strane sensazioni del non conoscere ancora la città dove sto “sopravvivendo”, prima brulicante di turisti e caos, ora così tranquilla ma irraggiungibile, ciò genera in me una gran confusione. Firenze non mi si è mai mostrata fino in fondo: a settembre l’ho visitata la prima volta percorrendo la via degli Dei a piedi da Bologna, e lo stesso giorno ci fu il primo terremoto (la prima delle forti scosse che sono poi susseguite) nel mio paesino di nascita in Albania. Un inizio promettente dunque, a cui sono seguite la ricerca di trovare una stanza, l’averla trovata ma senza finestre e poi l’attesa della graduatoria degli alloggi per gli studenti giunta a febbraio.
Credevo fosse finalmente arrivato il momento di vivere Firenze dall’interno, che per me vuol dire creare reti di umani e interazioni di creatività, collaborare ma a quanto pare mancava altro.
Per ora quindi mi abito, non faccio nulla di nuovo come sento dire e ammiro molte persone che hanno intrapreso nuove attività casalinghe.
Tento solo di concludere ciò che avevo tralasciato in modo che la fine di questa quarantena possa farci partire tutti neutrali e tranquilli.
Mi sento fortunata a non dovermi preoccupare, grazie alla borsa di studio, di questioni economiche ma sono comunque in pensiero per le tante persone che in questo momento non sanno come andare avanti.
La mia quotidianità non si è trasformata radicalmente, mi sembra tutt’ora tutto nuovo e al contempo antico, lì da sempre.
È strano fare lezione sullo schermo del computer mentre io confesso mi metto a fare stretching o pulire o danzare. Non si può sostituire il legame che lega i professori ai ragazzi.
Faccio pellegrinaggi con gli occhi, mi affeziono ai lampioni distanti, al parco chiuso a chiave, a piccioni e uccelli vari che sembrano spaesati. Mi perdo come prima ma dentro me stavolta, nelle linee della mia mano.
Mi educa questa quarantena all’amore per il dettaglio
Si è trasformata in saluto ogni finestra aperta per le strade. Le lavatrici nel balcone dei vicini mi sembrano astronavi in partenza. Tra sconosciuti invece ci si saluta come superstiti di guerra. Mi manca certo tornare dalle amicizie care bolognesi e gli affetti bolzanini, questa distanza dunque la misuro in numero di desideri che mi spingono a rivedere gli umani, per me da sempre bussole. Cerco di attraversare questo tempo che ci è stato dato cercando di fare il meno possibile a livello pratico ma il più possibile a livello di canalizzazione di desideri: “Non c’è mai abbastanza tempo per fare tutto il niente che vuoi” – Bill Watterson.
Foto di Daniel Wanke da Pixabay