“E noi caregiver…?”
di Luca Negrogno (Istituzione G.F. Minguzzi), Francesca Pistone (Istituzione G.F. Minguzzi), Martina Belluto (Città metropolitana di Bologna)*
“Non vogliamo essere indispensabili. Non vogliamo essere noi il fulcro dell’assistenza”
(Familiare, caregiver)
“Il sollievo è in realtà un intervento che fai sull’assistito, non sul caregiver. Succede ad esempio che i servizi forzano delle valutazioni in UVM, magari per prolungare una degenza che potrebbe terminare prima: quel tipo di intervento non è quindi costruito sull’esigenza dell’assistito ma sul bisogno di dare tempo, “liberare” i caregiver; in questo modo si crea una contraddizione tra il bisogno del caregiver e le possibilità di scelta della persona assistita. Il servizio riproduce il conflitto tra autonomia e dipendenza”.
(Operatrice)
Queste due frasi sono raccolte nei report scritti in occasione del tavolo di conversazione “e noi caregiver…?”, uno spazio d’ascolto aperto a cittadini, coordinato dalle associazioni del Comitato Utenti, Familiari e Operatori (CUFO) e dall’Istituzione G. F. Minguzzi.
“Perché ci vuole una città”
L’occasione per avviare un confronto tra cittadinanza, caregiver e familiari di persone con disabilità e psicopatologie, giovani e non, è emersa in occasione della Giornata Mondiale della Salute Mentale del 2022, intitolata “La salute mentale come bene comune”. Perché ci vuole una città per fare Salute Mentale” promossa dall’Azienda USL di Bologna, l’Università di Bologna, il Comune di Bologna e la Città metropolitana, in collaborazione con numerose realtà dell’associazionismo e della cooperazione sociale. Il tavolo è nato a seguito di questa iniziativa, in particolare alla domanda “e noi caregiver…?” che hanno posto alcuni familiari durante gli incontri della giornata, dalla quale è successivamente emersa la necessità di pensare a forme di sostegno collettivo ai caregiver, sia familiari che professionali. Promotore del tavolo è il Comitato Utenti, Familiari e Operatori (CUFO), un organo di partecipazione dei cittadini nell’ambito della salute mentale, costituito presso il Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze Patologiche dell’Azienda USL di Bologna, con l’obiettivo di sostenere progetti e interventi di miglioramento della qualità dei servizi.
Dall’ottobre 2022 ad oggi, il tavolo è diventato un momento di confronto per circa cinquanta persone, sviluppando un percorso che ha permesso di incontrare diversi soggetti — da professionisti dei servizi sociosanitari ad attori politico/istituzionali — e progettualità esistenti, tra cui gli interventi di supporto a caregiver familiari e il Board “Partecipazione, Equità e Umanizzazione” promossi dall’Azienda USL di Bologna, e il “Tavolo Interistituzionale per la prevenzione delle malattie professionali” composto dal Comune di Bologna, Istituto Ramazzini, Associazione Tutte per Italia, Fondazione Ant, Ordine dei Medici e Chirurghi, Associazione Noi per Bologna, Inail, Inps, Cgil, Cisl, Uil e Regione Emilia-Romagna.
Il tavolo non si è costituito dandosi a priori un obiettivo finale da produrre, piuttosto si è preferito in questi mesi incrementare una discussione ampia, riflettere sull’identificazione della condizione di caregiver, conoscere i servizi disponibili, ragionare sulle modalità in cui le politiche pubbliche prendono in carico la figura dei caregiver, familiari e professionali. In questo contributo proponiamo una prima ricognizione dei lavori del tavolo e ci soffermiamo su alcune questioni aperte che emergono dalla situazione attuale.
L’inquadramento normativo in evoluzione
In primo luogo, si è discusso di cosa significhi concretamente essere “caregiver” e delle varie letture interpretative alle quali è soggetta questa parola, a partire delle diverse definizioni di “caregiver” presenti all’interno della normativa regionale e nazionale, con la consapevolezza che sia quanto mai urgente, in Italia, l’approvazione di una legge dedicata al riconoscimento sociale, materiale e politico di chi si prende cura dei propri cari. Com’è noto, infatti, l’(allora) innovativa legge 2/2014 della Regione Emilia-Romagna “Norme per il riconoscimento ed il sostegno del caregiver familiare” riconosce la figura e il ruolo di caregiver come «la persona che volontariamente, in modo gratuito e responsabile, si prende cura nell’ambito del piano assistenziale individualizzato di una persona cara consenziente, in condizioni di non autosufficienza o comunque di necessità di ausilio di lunga durata, non in grado di prendersi cura di sé» (Legge Regionale 2/2014, Art.2). L’aiuto offerto dai caregiver, specifica il testo di legge, può essere di diverse tipologie e può concretizzarsi in diverse modalità: nella cura alla persona e del suo ambiente domestico, nel supporto nella vita di relazione, nel benessere psicofisico, nell’aiuto nella mobilità e nello svolgimento di pratiche, anche in integrazione con operatori che forniscono attività di assistenza.
Tuttavia, al di là di quanto previsto dalla normativa regionale, a livello nazionale la definizione di caregiver è presente all’interno della legge di bilancio del 2018 (legge n. 205/2017), testo in cui l’identificazione di caregiver assume caratteri più specifici e stringenti. In questo caso, i presupposti che devono configurarsi affinché una persona possa definirsi “caregiver familiare” sono definiti dal rapporto che lega il caregiver all’assistito (coniugio, unione civile, convivenza di fatto, parentela o affinità) e al riconoscimento di quest’ultimo in quanto familiare che «non sia autosufficiente e in grado di prendersi cura di sé, sia riconosciuto invalido in quanto bisognoso di assistenza globale e continua di lunga durata ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, o sia titolare di indennità di accompagnamento». Come sottolinea Pesaresi (2021), la normativa nazionale, riconoscendo solo i rapporti coniugali e familiari, esclude di fatto amici, affetti, vicini di casa e volontari in quanto possibili caregiver.
I bisogni emersi dal tavolo
Un ambito di questioni emerse dal tavolo riguarda l’aspetto dei bisogni. I primi cinque incontri hanno permesso di delineare un quadro vasto, da necessità più semplici e concrete, a esigenze dai risvolti più professionali, organizzativi e culturali rispetto al funzionamento dei servizi e al contesto sociale in cui questi operano. Riportiamo qui di seguito alcune osservazioni raccolte dalla diretta voce dei partecipanti. In primo luogo è emerso che i caregiver vorrebbero essere più rappresentati nei percorsi esistenti, nel rapporto con gli operatori, e all’interno dei servizi. Nonostante esistano già vari livelli di interlocuzione tra Servizio Sanitario e Associazioni di caregiver, l’aspetto della comune riflessione sui processi, della coproduzione di servizi, dell’ascolto e della presa in carico resta ancora un campo soggetto ad ampio miglioramento.
Varie esternazioni raccolte dai caregiver ci aiutano ad approfondire il vissuto soggettivo legato a questa condizione: «ci si trova in una situazione che è una scelta obbligata per supplire alle carenze dei servizi, è un qualcosa che ti tocca». La condizione è legata al rischio di isolamento, alla solitudine, alla rottura della rete sociale; nonostante la diversità delle persone, delle situazioni e delle condizioni, tutti riportano un senso di solitudine. Si leggono come positivi i gruppi di auto mutuo aiuto, che pure sono disponibili in gran numero sul territorio, anche se non sempre sono ritenuti sufficienti. I caregiver riportano ad esempio che non tutti sono ugualmente “efficaci”, «in certi gruppi si ripetono alla fine sempre le stesse cose», c’è il rischio che diventino «uno sfigatoio!». In questa espressione, in cui si fondono le idee di “sfogatoio” e di “contenitore di sfortune”, si può leggere anche l’effetto di una tendenza a considerare i gruppi di auto mutuo aiuto come una “soluzione” per i problemi dei caregiver, elemento che genera frustrazione e disattende le aspettative dei partecipanti. Se infatti la pratica dell’auto mutuo aiuto può essere importante per mantenere relazioni, condividere saperi e vissuti, costruire forme di solidarietà, non bisogna tuttavia ritenere che questa possa sopperire a bisogni materiali e di riconoscimento più pressanti, che chiamano inevitabilmente in causa i rapporti con le istituzioni.
«Gli operatori si occupano prioritariamente delle persone che assistono, e in genere non ritengono sia loro compito dare supporto ai familiari». Un altro aspetto emerso dai caregiver è il rapporto con i professionisti e i servizi esistenti, che sembrano non di rado poco consapevoli della «diversità delle persone, delle situazioni, che richiedono modalità di rapporti diversificati». Vale a dire che la visione essenzialmente biomedica e iperspecialistica dei problemi e degli interventi rischia di collocare la dimensione esistenziale della persona assistita dentro una rete di significato e di relazioni che rende talvolta gli interventi “lontani”, “asettici”, incapaci di dialogare con le diverse dimensioni del bisogno e con i contesti di cura locali. I caregiver riportano la percezione di avere a che fare con «percorsi standardizzati», che «spesso si muovono a vuoto». Il vissuto soggettivo viene caratterizzato dalla «paura che subentra alla diagnosi» e dalla percezione di svolgere un ruolo fondamentale per l’esistenza dell’altro, ma oscillando tra un senso di spaesamento e la percezione di possedere specifiche capacità non riconosciute adeguatamente da professionisti e servizi. Questa oscillazione emerge da varie situazioni riportate nell’esperienza soggettiva dei caregiver: nei servizi c’è «poco tempo dedicato ai colloqui con i familiari», «poca informazione rispetto alle iniziative in essere» e «mancanza di continuità», ma anche «poco ascolto della nostra voce, dei nostri bisogni, delle nostre spinte progettuali».
La «necessità di risposte dalle istituzioni» non si risolve sempre nella ricerca di un ulteriore intervento tecnico. Da questo punto di vista, emerge ancora fortemente necessario un cambio di paradigma dell’assistenza verso un approccio consapevole e includente le dimensioni esistenziali e soggettive del paziente e dei suoi cari, un cambiamento che investe tanto la formazione dei professionisti sanitari e sociosanitari, quanto le strategie di programmazione e realizzazione degli interventi. Sono aspetti, questi, che chiamano direttamente in causa le modalità attraverso cui i servizi strutturano percorsi per rispondere ai bisogni emergenti.
Gli operatori si trovano spesso a contatto con profonde difficoltà fisiche, materiali e sociali per le quali sono previsti percorsi “già pronti all’uso”, dove il lavoro di cura fatica ad abbracciare la complessità delle storie di vita e di malattia. A causa di rigidi tempi burocratici di attivazione o di presa in carico, infatti, i servizi tendono a classificare i bisogni e gli assistiti in categorie predefinite (i “target”) affinché possano incorrere in rapide risposte: secondo questa logica può ad esempio accadere che, a fronte di necessità non direttamente “catalogabili”, alcuni bisogni vengano difficilmente rilevati, oppure resi taciti perché non è prevista alcuna modalità per rispondervi. È il caso, ad esempio, della difficoltà di farsi carico di persone anziane sole, senza caregiver, che vengono prese in carico dai servizi solo quando diventano non autosufficienti e, dunque, sono previste delle forme di accompagnamento.
Anche il tema del passaggio da un percorso a un altro è riportato come momento emblematico, una fase di transizione in cui si si avverte un senso di “sospensione” relativo al passaggio da una condizione anagrafica, sociale, amministrativa a un’altra, e tra le diverse articolazioni della pubblica amministrazione nella presa in carico. Ne sono esempio il «momento di vuoto dopo i 18 anni» vissuto da genitori/caregiver di persone con disabilità, oppure il cosiddetto “Dopo di noi”, momenti percepiti dai caregiver come periodi di grande incertezza, dove mancano risposte chiare e soluzioni rassicuranti («dopo che non c’è più la famiglia, al massimo vengono proposti gruppi appartamento»).
Esiste, in sintesi, la percezione di uno scollamento tra il livello istituzionale e decisionale, e i servizi erogati. Quando il tavolo ha aperto il confronto sui percorsi di sostegno e supporto ai caregiver offerti dall’Azienda USL di Bologna, sulle numerose iniziative in essere e gli Sportelli Caregiver esistenti, molti dei presenti hanno riportato di non esserne a conoscenza, oppure di non essere contemplati nelle categorie a cui i servizi di supporto ai caregiver sono destinati. Parlare delle iniziative esistenti ci è parso dunque un primo lavoro da dover affrontare come tavolo, un primo passo per ricomporre questo scollamento. Parallelamente, dal confronto con i servizi è emersa la difficoltà, da parte degli operatori, di strutturare percorsi inclusivi per i caregiver, dovuta al fatto che le politiche esistenti sono vincolate a specifiche condizioni di salute molto formalizzate. In questo modo, gli interventi risentono di una formula “targetizzata” di tipologie di utenza e di bisogno, la quale previene la possibilità di sviluppare una riflessione sul caregiving in senso più ampio, sia in termini pratici, sia in chiave etico-politica.
E la salute mentale…?
Anche il campo della salute mentale è risultato un tema centrale per i caregiver, un ambito da cui emergono riflessioni di particolare interesse. Grazia Stella, psicologa che ha collaborato con l’Associazione Il Ventaglio di Orav nell’ambito dei progetti di sostegno e supporto ai caregiver familiari finanziati dall’Azienda USL di Bologna nel 2022, riporta così la riflessione maturata durante il percorso: «i caregiver che si rivolgono agli incontri individuali o di gruppo chiedono supporto per coinvolgere i loro assistiti, per sviluppare insieme diverse modalità di presa in carico; non chiedono interventi temporanei, chiedono di sviluppare strategie e percorsi per far star meglio loro stessi insieme ai loro cari». Antonella Misuraca, presidentessa del CUFO, ritiene inoltre che «il sostegno al caregiver è anche il riconoscimento della sua fragilità, quindi è necessario prevedere forme di sostegno psicologico e di maggiore relazione tra servizio e caregiver, non solo azioni di sollievo». I partecipanti al tavolo sottolineano in questa direzione «il bisogno di una maggiore presenza di psicologi per caregiver e per i loro cari», un aspetto sicuramente necessario che tuttavia non si esaurisce con il tema della salute mentale. Analizzando le discussioni del tavolo si delinea, piuttosto, una dimensione del bisogno che ha a che fare con il riconoscimento della fragilità, la capacità di contare nelle decisioni, la possibilità di socializzare la propria condizione, di contribuire a costruire possibilità positive di vita degna per sé e le persone assistite, finalità non riducibili solo all’azione di sostegno psicologico individuale.
Negli ultimi anni si è più volte osservato come l’apporto dei caregiver può essere quello di influenzare culturalmente e ‘operativamente’ l’azione dei servizi in senso trasversale, supportando progettualità e pratiche di presa in carico per implementare percorsi individualizzati maggiormente attenti alla soggettività e orientati allo sviluppo di capabilities, vale a dire di libertà di scelta, di accesso ai diritti e di autodeterminazione dei soggetti. Rispetto ai progetti terapeutico-riabilitativi esistenti, i caregiver chiedono approfondimenti con psichiatri per gestire crisi, avere più conoscenza dei farmaci, affrontare la depressione; poiché le équipe sono spesso molto centrate sul paziente, richiamano la necessità di coinvolgere attivamente i caregiver nel percorso terapeutico, anche per avere un riscontro costruttivo alla propria operatività quotidiana («la pacca sulla spalla ce la sappiamo dare anche da soli», «aiutateci ad aiutare»).
Dai bisogni alle interlocuzioni e ai progetti
Come si è visto, spesso i bisogni portati dai partecipanti al tavolo si accompagnano a criticità esistenziali e personali legate ad un senso di “obbligatorietà”, alla riorganizzazione della vita familiare («se sta bene lui, stiamo bene noi»), ai passaggi di età (per i conseguenti cambi di interlocutori istituzionali), alle relazioni intrafamiliari alterate quando non annullate, con il rischio annesso di isolamento all’interno della propria stessa cerchia familiare. Ancora, la paura di diagnosi che «circoscrivono i percorsi», la sensazione di «perdersi nei labirinti istituzionali» considerando la molteplicità di enti e soggetti diversi a cui fare riferimento per esami, sostegni economici, percorsi terapeutico-riabilitativi. A questo si aggiunge il timore di entrare nel cosiddetto «tunnel della valutazione», che talvolta presenta forme di eccessiva burocratizzazione e processi amministrativi vissuti come estranei rispetto alla materialità della condizione esistenziale dei caregiver e dei propri cari.
Durante gli incontri del tavolo, Danilo Rasia, dell’Associazione Passo Passo, ha a tal proposito evidenziato come l’ambiguità delle politiche attuali sui caregiver stia principalmente nel fatto che il supporto viene indicato come un intervento possibile verso un bisogno “oggettivato”, che rischia di minare processi più ampi verso l’autonomia delle persone assistite. Come sottolinea anche un’operatrice sanitaria, ascoltando le narrazioni dei caregiver «si crea una contraddizione tra bisogno del caregiver e bisogno di autonomia e di scelta della persona. Il servizio riproduce il conflitto tra autonomia e dipendenza». Il diritto alla libera scelta e all’autodeterminazione, quindi anche il non dover “dipendere” dai caregiver familiari, è del resto ribadito, in un’ottica di politiche sociosanitarie e assistenziali, anche dalla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità.
Se da un lato, dunque, alcuni caregiver riconoscono che una importante criticità riguarda mancati finanziamenti al welfare («si tende a scaricare sulla famiglia la cura che non riesce ad essere presa in carico dai servizi»), dall’altra gli stessi caregiver rivendicano di poter avere un ruolo attivo per supportare i servizi e attuare un cambiamento culturale.
«Quando ci hanno comunicato la diagnosi di mio figlio, sarebbe stato utile per me — riporta una mamma — trovare altri caregiver con una funzione di ascolto, di auto mutuo aiuto nel servizio. […] Sarebbe stato opportuno se ad accompagnarmi nel difficile percorso di consapevolezza e orientamento ci fosse stata una persona che mi capiva per esserci già passata, un caregiver alla pari, come esperto, con un ruolo formalizzato nel servizio».
Questo aspetto, che riportiamo in quanto tema ricorrente emerso dal tavolo, allude alla possibilità che un maggiore riconoscimento del ruolo di caregiver esperti nei servizi conduca anche ad una più ampia umanizzazione delle pratiche di comunicazione, della progettazione terapeutico-riabilitativa e della stessa organizzazione dei servizi.
In aggiunta a queste considerazioni, si è accompagnata la volontà propositiva di «fare cose insieme», pensando, ad esempio, ad una Banca del Tempo dei caregiver per sopperire alle esigenze quotidiane, oppure alla realizzazione di attività di informazione e formazione auto organizzate, coadiuvate da professionisti e da diverse professionalità. Inoltre, i caregiver hanno avanzato la possibilità di dotarsi di diversi strumenti: ad esempio liste di associazioni, informative generali, ma anche attivare nuove reti di sostegno di famiglie con situazioni simili, creando un database dei genitori per favorire scambi e una maggiore conoscenza delle forme di aiuto e sostegno esistenti; o ancora, attraverso una riconosciuta collaborazione tra pari, sviluppare azioni di accompagnamento per lo svolgimento di pratiche burocratiche. La possibilità di “aggiungere un posto al tavolo” è stata quindi una sfida che ci è parsa necessaria, seppur al momento solo immaginata. In questa direzione, sono attualmente in cantiere alcune interlocuzioni da cui auspichiamo possano crearsi dei momenti di confronto, sia a livello locale (con Azienda USL di Bologna e Comuni), sia a livello regionale.
Conclusioni
Paura, perdersi, orientarsi, ascolto, comunità sono alcune delle parole chiave estrapolabili dai nostri primi incontri. Aggiungiamo un percepito scollamento tra “vite” e “carte”, tra situazioni ed istituzioni, di difficile ricomposizione e che necessita di un attivo monitoraggio dei servizi (e con i servizi) che richiede uno sforzo congiunto. Come si è visto, azioni di informazione, formazione e supporto pratico sono alcune delle necessità emerse dal tavolo, azioni che dovrebbero guidare l’operato dei servizi cercando il più possibile di promuovere la cooperazione e la collaborazione tra attori e stakeholder, favorendo una rete integrata e attenta nei meandri delle relazioni tra soggetti pubblici, privati e terzo settore; diffondendo inoltre la conoscenza del fenomeno del caregiving, sensibilizzando la comunità sulla figura dei caregiver e sui possibili sviluppi e divisioni di ruoli tra famiglie e società. Pur nella consapevolezza che diverse progettualità positive siano esistenti, è necessario incrementare e diffondere le buone pratiche già in essere sul territorio con campagne comunicative più vaste, anche includendo gli Sportelli Caregiver, spesso poco conosciuti.
Parallela a queste considerazioni sembra anche esserci una forte necessità di costruire ruoli di rilievo nei servizi per i caregiver, come pari, esperti e formatori, immaginando anche una trasmissione di competenze tra caregiver e professionisti per una condivisione collettiva e comunitaria di bisogni. I caregiver non dovrebbero percepire il peso di una assistenza avvertita come frammentaria, dovrebbero piuttosto avere un ruolo ausiliario, partecipativo, di collaborazione creativa.
Ricerche sociologiche e antropologiche hanno evidenziato l’utilizzo politico e strategico delle potenzialità insite in formazioni adeguate, tali da rendere i caregiver importanti risorse per i servizi sociosanitari (Sadler, McKevitt 2013). Un simile coinvolgimento deve però accompagnarsi a esplicite possibilità di incidere, attraverso azioni di voice, sulla qualità dei servizi. Recuperare la dignità come caregiver e dare spazio alla competenza esperienziale nella co-progettazione dei servizi sono due azioni congiunte, che si accompagnano necessariamente all’esigenza di alleggerire e rivedere anche la rigidità del sistema, attivando reti di sostegno capaci di sconfinare nel territorio più di quanto i servizi non riescano strutturalmente a fare.
Di fronte a una poco chiara definizione della figura di caregiver e alla necessità di ampliarne la portata immaginativa e quindi pratica, è utile tenere conto di una serie di riflessioni recenti. In primo luogo, il dibattito sull’ambivalenza della cura mostra diverse tensioni contraddittorie: tra l’autodeterminazione, il “prendersi cura” e il rischio di riproduzione di condizioni disabilitanti (cfr. Brunella Casalini in Ecologie della cura. Prospettive transfemministe, a cura di M. Fragnito e M. Tola, 2021; Matteo Schianchi, Disabilità e relazioni sociali, 2021); oppure, altro tema di cui è necessario tener conto oggi, l’emersione di concettualizzazioni sempre nuove delle condizioni di “menomazione”, che spesso vengono risignificate grazie all’esperienza dei caregiver, dando luogo a innovativi riconoscimenti delle condizioni di disabilità e delle possibilità di funzionamento e di partecipazione a cui è possibile aspirare attraverso percorsi inclusivi (cfr. Valentina Perniciaro, Ognuno ride a modo suo, 2022; l’ormai ampia produzione italiana dei Disability Studies di cui alcuni temi erano già stati anticipati in Pedagogia Speciale di Canevaro, ad esempio quello riguardante il rapporto tra le rivendicazioni delle famiglie e l’abbandono di prognosi pessimistiche sulle possibilità di vita ed inclusione delle persone trisomiche).
A questi temi si aggiunge, inoltre, la tensione tra la valorizzazione della dimensione etica della cura e il riconoscimento della cura come lavoro riproduttivo inegualmente distribuito (cfr. la distinzione tra caregiver familiare/professionale nelle politiche).
A tal proposito, alcune recenti esperienze, favorite dall’interpretazione ampia della figura di caregiver promossa dalla già citata legge regionale 2/2014, hanno mostrato l’importanza di volgere uno sguardo unitario al fenomeno del caregiving, considerando l’ipotesi di svolgere rilevazioni di bisogno, processi di co-produzione e interventi destinati sia a chi svolge questa attività come familiare, sia a chi la pratica nell’ambito del lavoro domestico formalizzato. Questo aspetto è stato al centro di un’interessante ricerca svolta dall’Istituzione Minguzzi nel 2021 nel Distretto di Reno-Lavino-Samoggia, dal titolo “Rilevazione sul benessere dei caregiver nel Distretto Reno-Lavino-Samoggia”, a cura di Giovanna Perucci e Luca Negrogno. La ricerca ha messo in rilievo l’utilità di svolgere momenti congiunti tra caregiver familiari e professionali che funzionassero anche come gruppi cooperativi di scambio di conoscenze e relazioni, incidendo positivamente sulla reciprocità dei ruoli di diverse figure di caregiver chiamate in causa, migliorando così la coesistenza nel sistema relazionale familiare e la capacità di riconoscere e tematizzare i livelli di stress.
A conclusione delle riflessioni emerse dal tavolo, ci preme sottolineare l’utilità e l’urgenza di dedicare spazi di pubblicità e visibilità alla questione della cura: parimenti è auspicabile che il tema della cura familiare, come ogni forma di riproduzione sociale, sia sottratto all’ambito del privato e della naturalità (in larga parte femminilizzata e tendente a creare condizioni di forte squilibrio e ingiustizia sul libero mercato) e che torni ad essere un tema capace di interrogare le basi di convivenza delle nostre società.
Come ha ribadito Lucia Luminasi, Vicepresidente del CUFO, di fronte al fatto che «le famiglie non sono più quelle di una volta», è importante «prendere atto nella definizione del caregiver della mutevolezza dei legami familiari, anche alla luce delle difficoltà che situazioni meno regolari possono trovarsi ad affrontare».
Purtroppo, la riduzione dell’ambito di intervento rispetto all’ampiezza della precedente definizione legislativa regionale non permette di immaginare politiche che contemplino diverse tipologie di attori della cura. Tale meccanismo rende difficile riconoscere e tematizzare pubblicamente le pratiche di caregiving e sottrarle alle relazioni di tipo privatistico e familiare, rischiando di rendere invisibile il peso del lavoro riproduttivo e la rilevanza politica delle forme di presa in carico sociale.
Riferimenti Bibliografici
Canevaro A. (2006). Pedagogia Speciale. La riduzione dell’handicap, Milano: Mondadori.
Casalini B. (2021). Rileggere criticamente Love’s Labor di Eva Feder Kittay, in Fragnito M., Tola M. (a cura di), Ecologie della cura. Prospettive transfemministe, Nocera Inferiore: Orthotes.
Perucci G., Negrogno L. (a cura di) (2021). Rilevazione sul benessere dei caregiver nel Distretto Reno-Lavino-Samoggia, Istituzione G. F. Minguzzi.
Perniciaro V. (2022). Ognuno ride a modo suo: Storia di un bambino irriverente e sbilenco, Milano: Rizzoli.
Pesaresi F. (a cura di) (2021). Il manuale dei caregiver familiari. Aiutare chi aiuta, Network Non Autosufficienza, Santarcangelo di Romagna: Maggioli Editore.
Sadler E., McKevitt C. (2013). “‘Expert Carers’: an Emergent Normative Model of the Caregiver”, Social Theory & Health, 11(1): 40-58.
Schianchi M. (2021). Disabilità e relazioni sociali. Temi e sfide per l’azione educativa, Roma: Carocci.
* Ci scusiamo con lə lettricə per l’utilizzo sovraesteso del genere maschile, per esigenze di redazione abbiamo dovuto fare questa scelta.