A cura di Matteo Valoncini
Cos’è che fa tanta paura?
La vita di tutti i giorni è stata stravolta, ma non è questo il punto, forse non è nemmeno il divieto di uscire e magari non è nemmeno il divieto di andare a correre, a passeggiare. Certo, tutto questo non aiuta, anzi, per molti è un vero sacrificio, ed è un sacrificio che va rispettato. Cos’è che fa tanta paura? La morte? Nostra o dei nostri cari, o il non poterla celebrare, non poterla calcolare, non poterla guardare in faccia? Onestamente non lo so.
Quel che accade e accadrà
Abito in un piccolo comune della Lombardia, sono a una ventina di euro di benzina da Milano e da Bergamo, di cui certamente avrete sentito parlare. In questo piccolo comune, ogni giorno da ormai una settimana, una volante passa tra le case dei quartieri e con voce stentorea, a volte anche irosa, intima: «Statevene a casa!». Certo, lo fa con un giro di parole più lungo, ma il messaggio rimane: «Statevene a casa!». Noi in famiglia obbediamo, nel nostro piccolo, ma la cosa che ci preoccupa, e che preoccupa tutti, credo, è quel che ne seguirà.
L’abbiamo visto tutti: camion dell’esercito a Bergamo per aiutare a portare via le salme, troppi morti in troppo poco tempo, medici e infermieri stravolti che chiedono a tutti di non uscire, di non sottovalutare quel che stiamo vivendo, di non pensare che il problema siano sempre gli altri.
Io e gli altri
Sì, perché il problema non sono io che esco a farmi un giro, il problema sono gli altri. Io sono stufo di stare in casa, non sono abituato, devo uscire, mentre quell’uomo a qualche decina di metri di distanza da me, lui che sta facendo? Perché è in giro? L’ordinanza è chiara, che se ne vada a casa! E quando vedo le persone correre poi, avranno mai corsa nella loro vita? È davvero necessario correre ora? Sono basito, dopotutto è semplice: restatetevene in casa. Io? Per me è diverso, rimango vicino a casa mia, non disturbo nessuno, e poi sono sano! Che male posso fare? La risposta è che non lo so che male possa fare uscire di casa, a me o agli altri, ma non è questo il momento di tirar fuori la parte peggiore di noi.
Quel che passa nella mente di un ragazzo
Ebbene, quello che voglio condividere con voi, è quello che passa per la mente di un ragazzo di venticinque anni che, forte della sua gioventù ma anche dei suoi studi, non può negare d’aver pensato un minimo di quel che ho scritto, di aver pensato che il problema fossero innanzitutto gli altri (e degli altri) non senza vergognarsene poco dopo. No, non è solo l’improvvisa comparsa di una pandemia, è un modo di pensare che accomuna molti di noi: sì, vi sto provocando ma no, non vi sto giudicando. Siamo cresciuti così, individui che devono farsi spazio in un mondo che non perdona le debolezze, le incertezze, gli errori di pianificazione, la perdita del controllo. Tutto deve essere sempre rigorosamente sotto il nostro controllo e, per la seconda volta in trent’anni, nulla lo è. I decreti escono ogni giorno, ogni giorno nuovi, non si sa come comportarsi, quando finirà, se finirà e cosa accadrà dopo. La prima volta che ci trovammo in una situazione simile, le morti erano dei mercati, e forse ci siamo resi poco conto nell’immediato di quel che stava accadendo, e di fatto siamo andati avanti per la nostra strada: «Ognuno pensi a se stesso, débrouillez-vous!».
La morte, l’altra parte della vita
Oggi invece ci alziamo ogni mattina e apriamo i giornali, la sera, a cena, accendiamo i notiziari e, purtroppo, le notizie sono sempre quelle: una conta dei morti, dei contagiati, ma anche dei guariti. Io guardo sempre il numero dei guariti. «Che irriverenza – diranno alcuni – e i morti? Loro non contano?» Ma tanto erano tutti deboli, indeboliti dalla malattia, dalla vecchiaia e da chissà cos’altro! Qualcun altro potrà dire: «Sono immunodepressi, sono malati, sono deboli». Tuttavia no, dobbiamo trovare la forza di dire che sono persone, come lo siamo noi, con affetti, speranze, vite che vengono stroncate, perché ci vuole forza e coraggio nell’ammetterlo. Finché non facciamo questo passo nel dire: «Sono morte 546 persone, nelle ultime ventiquattro ore, in Lombardia» non ne usciremo. E non abbocchiamo alla retorica dell’esorcizzare la morte, etichettando i defunti come soggetti già destinati a salutarci anzitempo, quei morti sono persone, ed altri ne arriveranno.
Ognuno deve fare la propria parte
Io come tanti di voi, oggi, mi sento impotente, inutile, spiazzato, confuso, arrabbiato, ma anche annoiato, indifferente, indispettito, tutto il contrario di tutto, ed è giusto così. Quello che conta oggi, però, è mettere da parte le proprie convinzioni, non cedere a pensieri egoisti, ognuno deve fare la propria parte e, se non si ha una parte da giocare in quest’esiziale partita, è necessario sapersi sedere in panchina, guardare ed essere pronti, sperando che quando arriverà il nostro turno lo potremo essere davvero.
Foto di Matteo Valoncini