A cura di Federico Licastro

In questa news si cercherà di fare il punto su il se e il come la pandemia da Covid-19 abbia influito sulla ricerca scientifica nel nostro paese.  Non è un compito facile.

Infatti, nel mondo della didattica abbiamo molti attori coinvolti contemporaneamente, professori, studenti personale addetto alle aule, personale amministrativo che interagiscono fra loro e il virus ha colpito questo insieme di interazioni.  Ma il sistema ha reagito sostituendo la didattica in presenza con la DAD, come abbiamo visto nella precedente news, creando anche una serie di problemi e criticità.

La ricerca italiana prima del Covid-19

La situazione pre-Covid-19 vede una situazione tutt’altro che facile per i nostri ricercatori.  Infatti, l’Italia ha il triste primato di sotto finanziare cronicamente la ricerca scientifica da oltre un ventennio, infatti ha pochi ricercatori rispetto alla popolazione, le carriere di questi studiosi sono lente e farraginose e i loro stipendi inferiori ai loro colleghi europei.

Vediamo alcuni dati che ci forniscono una fotografia dello stato della ricerca in Italia.

E’ appena stato pubblicato l’”Annuario Scienza Tecnologia e Società” (a cura di Giuseppe Pellegrini e Andrea Rubin, il Mulino), un appuntamento che il centro studi Observa Science in Society ha varato dal 2005 per fotografare la cultura scientifica.

Durante i 15 anni di pubblicazione, gli indicatori scelti dall’Annuario mostrano nel complesso tendenze incoraggianti: l’analfabetismo scientifico è in (lieve) flessione, migliora la sensibilità ai problemi dell’ambiente, cresce il desiderio di informazione scientifica in tv, radio e giornali, ma non nei social in cui continua un negativo rumore di fondo antiscientifico.

In Europa siamo al tredicesimo posto per numero di laureati e dottorati nelle discipline scientifiche, anche se è migliorato il rapporto uomini/donne in campo scientifico.

Quanto alla percentuale di ricercatrici nel mondo: ai primi posti troviamo nell’ordine Argentina, Lettonia, Lituania, Islanda, Romania; l’Italia è diciassettesima. Ma non facciamoci ingannare da facili conclusioni.  Infatti, con bassi salari il settore attira soprattutto donne che nei paesi su elencati svolgono un ruolo di supporto al reddito familiare.

Drammatica la prevalenza degli anziani tra i docenti universitari: il Lussemburgo ha il 62% dei docenti sotto i quarant’anni, l’Italia il 13%. Inoltre, siamo ventiduesimi in Europa per la presenza femminile tra i docenti universitari (37 % contro il 56% della Lituania).

L’Italia ha avuto 561 progetti finanziati dall’European Research Council, l’ente europeo che eroga i fondi UE per la ricerca, ed è all’ottavo posto della classifica europea per finanziamenti dati dall’Europa ai vari paesi UE, mentre in testa c’è il Regno Unito con 2073 progetti: un primato destinato a scomparire con la Brexit.

Una volta ottenuti i finanziamenti (scarsi) i ricercatori italiani svolgono la ricerca programmata e poi pubblicano i loro risultati sulle riviste scientifiche relative al loro campo di interesse scientifico.

Quale è la situazione dell’Italia nel campo delle pubblicazioni scientifiche e del loro valore internazionale?

Nel campo della produzione scientifica dominano gli Stati Uniti con oltre 4 milioni di articoli e la Cina con 2,6 milioni, seguiti da Germania e Inghilterra con 1 milione. L’Italia ottiene un onorevole ottavo posto con 663.000 articoli, ma il numero di ricercatori in Italia è molto più basso rispetto agli altri paesi citati.

L’Italia è solo al 22° posto per gli articoli scientifici più citati e nessuna delle nostre istituzioni di ricerca compare tra le più citate.  Se guardiamo all’elenco dei dieci scienziati italiani più citati a livello internazionale troviamo al primo posto il Prof. Carlo Croce (scienze biomediche) con un Indice di Hirsch (HI) di 220, che lavora da sempre negli Stati Uniti, anche se ha ottenuto incarichi presso l’Università Italiana. Al secondo posto c’è Daniela Bertoletto (fisica delle alte energie; HI 189) che lavora nel Regno Unito, al terzo l’immunologo Alberto Mantovani (HI 187, Università di Milano) che vive e lavora in Italia. Altri tre dei nostri ricercatori più citati lavorano negli Stati Uniti.

Nessuno degli atenei italiani è incluso nei dieci migliori del mondo. Al vertice troviamo l’Università di Harvard, seguita da quella di Stanford, entrambe negli Stati Uniti, terza l’università di Cambridge del Regno Unito, che è anche la prima in Europa, seguita da Oxford sempre in Inghilterra.

Secondo la classifica di World University Ranking 2019 al 153° posto compare la Scuola Sant’Anna di Pisa, al 161° la Normale di Pisa, al 201° l’Università di Padova e il San Raffaele di Milano.

Come va l’innovazione industriale? Sfortunatamente la situazione non migliora sul versante della ricerca industriale. Tra i dieci settori tecnologici più innovativi primeggiano la comunicazione digitale, l’informatica, il settore energetico, la strumentazione medica e i trasporti.  In questi settori nessuna azienda italiana occupa le prime posizioni fra le aziende più innovative del mondo. Sul podio c’è la cinese Huawei, seguita da Mitsubishi (Giappone) e Intel (Stati Uniti); al nono e decimo posto, troviamo due aziende europee: Ericsson (Svezia) e Bosch (Germania).

Il paese più innovativo d’Europa è la Svezia, seguita da Finlandia e Danimarca, l’Italia è solo diciottesima.

Finanziamenti alla ricerca scientifica

La ricerca scientifica in Italia viene finanziata con fondi pubblici del ministero dell’Università e della Ricerca.  Abbiamo un nuovo ministro quello dell’Università Gaetano Manfredi ex rettore dell’Università di Napoli, ma il sito del ministero resta unificato: Ministero dell’Istruzione e dell’Università e della Ricerca (MIUR).  Lungimiranza dei burocrati ministeriali o pigrizia informatica?

Il ministero finanzia la ricerca con bandi appositi che hanno scadenza triennale o pluriannuale.  Il maggiore stanziamento dedicato alla ricerca di base si chiama Progetti di Interesse Nazionale (PRIN), viene bandito ogni due o tre anni e l’entità del fondo varia a seconda degli stanziamenti che il governo gira al MIUR.  Il 16 0ttobre del 2020 è stato aperto il bando PRIN 2020-22.  E’ prassi Italiana che il bando esca sempre verso la seconda metà del primo anno di finanziamento e in questo ultimo caso le domande si possono fare fino a fine gennaio 2021.  Quindi si consolida la tradizione che gli anni solari per il MIUR non coincidono mai con quelli istituzionali e la programmazione ministeriale.  Si crea il paradosso frequente che quando il bando giunge a termine i ricercatori devono presentare un rendiconto per le ricerche svolte in un anno (2020) di cui non hanno ricevuto il finanziamento. Quando si dice la burocrazia!

Veniamo al quantum: lo stanziamento per il 2020 è di circa 179 milioni di euro, quella per il 2021 di 250 e quella per il 2022 di 300 milioni di euro. Con un incremento significativo rispetto ai precedenti anni di esercizio.  Si penserà; un sacco di soldi, ma non è così.

Ad esempio, i soldi disponibili per ricerche di interesse nazionale nell’anno pandemico 2020 per tutte le discipline della scienza della vita, cioè medicina, biologia, biotecnologie, farmacia, etc. sono di 62,6 milioni di euro.  Cioè meno del costo medio di quattro o cinque calciatori di serie A.

Chi vuole capire capirà quale grande inversione il governo attuale sta attuando in campo scientifico, partorendo il solito topolino in un campo già afflitto da cronico sottofinanziamento.

Un altro capitolo di finanziamento della ricerca è il Programma Operativo Nazionale (PON,) attivo dal 2007 fino al 2013 con un sostanziale cofinanziamento della UE, ha elargito soldi per finanziare progetti in Calabria, Campania, Puglia e Sicilia per favorire lo sviluppo sociale e economico con 6 miliardi di euro.  Il risultato di maggiore rilevanza ottenuto in sei anni è una dispersione dei finanziamenti in mille rivoli fra attori eterogenei e spesso privi di reale qualifica nel campo della ricerca.

Nel 2014 il PON è diventato PONRI cioè Progetti Operativi Nazionali di Ricerca e Innovazione e la lista delle regioni beneficiarie si nono aggiunte Sardegna, Abruzzo, Molise e Basilicata.  Obiettivi: 1) migliorare la collaborazione fra università, enti di ricerca e imprese per conseguire un migliore sviluppo territoriale. 2) l’istituzione di “Laboratori di Formazione” col compito di favorire talenti e imprenditorialità nelle regioni su citate.  Fondo disponibile 1,286 miliardi di euro per il periodo 2014-2020; 926 milioni dall’UE e 360 dall’Italia.

Sarebbe di interesse nazionale avere un riscontro ex post di come siano stati impiegati questi fondi e quali risultati siano stati raggiunti in relazione agli ambiziosi obiettivi individuati.

Altri fondi vengono destinatari dal MIUR per il reclutamento del personale addetto alla ricerca nell’università e negli enti di ricerca (CNR, IIT e altri).  Per brevità mi limito a una breve disamina per l’università.

Ogni anno vengono messi a disposizione fondi variabili che servono per il funzionamento ordinario, stipendi del personale, manutenzione ordinaria e straordinaria degli immobili, nuova edilizia, interventi per studentati, borse per studenti etc. e una quota per finanziare i concorsi di assunzione di nuovi posti per docenti e ricercatori.

Ecco come si articola la piramide del personale addetto alla ricerca e alla didattica universitaria:

  • Professore di I fascia.
  • Professore di II fascia.
  • Ricercatore a tempo indeterminato (ruolo ad esaurimento).
  • Assistenti universitari (ruolo ad esaurimento).
  • Ricercatore a tempo determinato di cui all’articolo 24, comma 3, lettera b) Legge 240 del 2010. Si tratta di contratti triennali non rinnovabili al termine dei quali è possibile accedere direttamente al ruolo di Professore di II fascia, se in possesso dell’Abilitazione Scientifica Nazionale, e a seguito di valutazione positiva dell’ateneo.
  • Ricercatore a tempo determinato di cui all’articolo 24, comma 3, lettera a) Legge 240 del 2010. Si tratta di contratti della durata di 3 anni, rinnovabile per ulteriori due 2 anni.
  • Assegnista di ricerca. Ogni contratto individuale può avere una durata minima di un anno e massima di tre anni. La durata complessiva dei rapporti come assegnista di ricerca del singolo soggetto non può comunque essere superiore a sei anni.

I concorsi per l’assunzione nei vari ruoli si articolano, i fondi si distribuiscono su 190 settori concorsuali e 383 settori scientifici disciplinari.

Il MIUR ci ricorda che la durata complessiva dei rapporti come assegnista di ricerca e di ricercatore a tempo determinato, intercorsi tra il medesimo soggetto anche con Istituzioni diverse, non può in ogni caso superare i dodici anni, anche non continuativi.  Il tempo determinato può arrivare fino a 12 anni! Può succedere che il concorso non si fa e il ricercatore va all’estero o cambia mestiere con buona pace dell’investimento fatto dal nostro sistema (15 anni per la formazione elementari-laurea, 4 per dottorato o specializzazione e 12 come ricercatore = 31 anni che potrebbero essere sprecati).

Nessuna impresa privata potrebbe reggere se buttasse via anni di investimenti e capitale umano.  Invece il sistema Italia ogni anno vede emigrare circa 120.000 cittadini che cercano una migliore collocazione lavorativa e sociale all’estero.  Moltissimi sono giovani con diploma, laurea o dottorato e gli altri paesi UE o USA sono felicissimi di accoglierli al costo formativo quasi zero.

Quale è la soddisfazione della base della ricerca italiana costituita da dottorandi, borsisti, assegnisti, e ricercatori precari che rimangono nel nostro paese a tirare la carretta tutti i giorni?

Da un’indagine promossa in ottobre del 2020 dal Comitato Precari e Ricercatori Universitari (CPRU) emerge molto forte il malessere di questi specialisti della ricerca che lamentano condizioni di lavoro precarie, mal pagate, spesso senza assicurazione sanitaria, privi di diritti fondamentali quali il congedo per gravidanza.  Anche il giudizio di molti di questi giovani e meno giovani lavoratori della ricerca sui loro supervisori, professori di I e II fascia sono tutt’altro che lusinghieri.

Infine, lamentano la persistenza del mal costume accademico che si estrinseca in concorsi pilotati e finanziamenti dati ad personam.

Nonostante tutto molti professori, ricercatori e precari della ricerca lavorano con passione e dedizione quotidiana, producendo spesso ottimi risultati teorici e applicativi.

Un esempio recente è stato il sequenziamento, il primo in Europa, del virus Covid-19 presso l’Ospedale Lazzaro Spallanzani di Roma ad opera di una ricercatrice precaria che poi anche per gli interventi del Presidente del Consiglio e di quello della Repubblica ha finalmente ottenuto un posto di lavoro stabile presso il laboratorio in cui lavorava.

Sfortunatamente, l’emergenza causata dal Covid-19 non sembra modificare le cattive abitudini delle nostre istituzioni politiche centrali.  Ad esempio, abbiamo un bisogno estremo di reclutare nuovi medici, specialmente specialisti, nei nostri ospedali.  Ebbene, i concorsi di ammissione alle scuole universitarie di specializzazioni mediche programmati dal MIUR per la primavera 2020 sono stati prima sospesi causa Covid-19, poi rimandati a settembre con un relativo lieve aumento dei posti.

Il concorso si è tenuto, ma i vincitori non hanno preso servizio presso le diverse cliniche universitarie per i ritardi del ministero nel compilare le graduatorie e per i soliti ricorsi cavillo-centrici al TAR. Infatti, una domanda del concorso prevedeva la lettura di una lastra radiografica di frattura del femore, e in alcune sedi di concorso non era disponibile un diafanoscopio per la lettura della lastra.  Chi ha predisposto i quesiti per il concorso non è stato certo lungimirante in tempo di pandemia.  Quindi, 14.000 professionisti sono bloccati alla data del 16 dicembre 2020 nel loro percorso professionale e non sanno in quale città dovranno trasferirsi per frequentare la specializzazione e dare il loro contributo indispensabile alla lotta al Covid-19 nei vari reparti dei nostri policlinici universitari.

La gestione politica continua ad essere insufficiente a far fronte alle esigenze reali imposte dalla pandemia e rimane in linea con le esperienze concorsuali precedenti. Pensate che una domanda nei test di selezione di uno scorso precedente concorso per specializzandi chiedeva il significato della parola “grattachecca”.  Cosa ha a che fare una grattachecca con il bagaglio culturale di uno specialista in formazione è un mistero che abita nella mente contorta di qualche burocrate ministeriale.Certo che il nostro paese non sembra essere un paese per giovani!



Che fare per uscire dagli ultimi posti e finalmente dare all’Italia una ricerca più adeguata alle esigenze del paese?

Secondo il direttore dello Istituto Italiano di Tecnologia, il Prof. Giorgio Metta, c’è bisogno urgente di investire contemporaneamente sulle persone e nell’infrastruttura tecnologica. Secondo il prof. Metta “alla nostra ricerca servono assolutamente laboratori avanzati, che hanno un costo e che abilitano a una ricerca competitiva. Nei nostri laboratori di computazione, di scienza dei materiali e di genomica abbiamo recentemente investito rispettivamente in computer, microscopi molto potenti e macchine per il sequenziamento di seconda generazione che rendono possibile sequenziare l’intero genoma di una persona a un costo sotto i 1000 dollari. Abbiamo così destinato una decina di milioni solo per queste attrezzature che sono il presupposto di una ricerca di punta”.

Anche il già velocemente tramontato Piano Colao, prevedeva che in Italia ci fosse bisogno anche di un rafforzamento del rapporto fra ricerca e industria.  Infatti, non possiamo trascurare che gli investimenti che l’industria italiana fa nel complesso in ricerca e sviluppo sono limitati e i finanziamenti alla ricerca scientifica dall’industria sono modesti.

Secondo il Prof. Metta “ Il panorama italiano costituito prevalentemente da piccole industrie rende questo compito complesso. Per attrarre finanziamenti privati e incentivare un lavoro di ricerca comune pubblico-privato bisognerebbe ispirarsi a istituzioni come il Weizmann Institute of Science israeliano, che affianca la ricerca di base a una struttura orientata al mercato finalizzata al trasferimento tecnologico, al finanziamento di proof of concept, alla creazione di spin-off, e a tutte quelle attività che stimolano una ricaduta industriale della ricerca. Esistono anche strumenti, per ora deboli in Italia, come fondi di investimento rivolti alle start up.

Se ascoltiamo la testimonianza della prof. Elena Cattaneo illustre ricercatrice e senatrice a vita della Repubblica ne emerge un quadro contraddittorio e irrisolto nel rapporto fra politica e mondo scientifico in Italia. “… Per troppi anni la politica italiana ha ritenuto di poter fare a meno delle evidenze nel processo decisionale, oppure di poterne tener conto solo parzialmente, omettendone gli aspetti più impopolari. Allo stesso tempo, molta parte della comunità scientifica si è illusa di poter limitare il proprio ruolo entro i confini del laboratorio. Ha quindi rinunciato a difendere quelle evidenze contro ogni tentazione semplificatoria e manipolatoria, e ad esigere che fossero messe nella loro interezza al servizio del legislatore e del dibattito pubblico. Ragioni di comodo o interessi e ambizioni puntiformi -“ad ente” e talvolta persino personali – hanno spesso portato gli scienziati italiani a venir meno al loro ruolo, scegliendo ad esempio di rinunciare a vigilare sulla corretta assegnazione e gestione dei fondi pubblici destinati alla ricerca o a rettificare le interpretazioni pubbliche errate o parziali dei dati disponibili. Scienza e politica, potremmo dire, si sono “sfruttate a vicenda”, riconoscendosi in un reciproco opportunismo.  Così è successo per la ricerca sul miglioramento genetico delle colture (gli Ogm) osteggiata nel nostro Paese, per l’opposizione alla ricerca sulle cellule staminali embrionali, per le aperture legislative a Stamina, per la sponda politica data ai movimenti no-vax, per la (mancata) lotta alla Xylella in Puglia, per i prodotti biologici.

Secondo la senatrice Elena Cattaneo  “…  Per invertire la rotta, è necessario che la voce di Università, Enti e Ospedali di ricerca, Società scientifiche, Accademie, di ogni giovane e meno giovane studioso, si levi a “sentinella sociale della conoscenza”, contro ogni deragliamento. Gli scienziati italiani lamentano spesso che la politica non conosce e non comprende il metodo scientifico, e con le dovute eccezioni questo è vero. Ma per esercitare appieno il loro ruolo, è essenziale che anche gli scienziati conoscano e comprendano i metodi della politica. Imparare le procedure decisionali delle istituzioni, seguire l’iter dei provvedimenti e intervenire al primo sentore di un deragliamento verso decisioni arbitrarie prese nel nome della pseudoscienza permetterebbe agli studiosi di offrire al legislatore un supporto tempestivo per “correggere la rotta”, diventando interlocutori stabili della politica su scienza, ricerca e salute pubblica”.

Penso che i suggerimenti della Prof. Cattaneo siano pieni di significato per chi si vuole impegnare per un rinnovamento del nostro paese.

La ricerca scientifica in Italia al tempo della pandemia

Il mondo della ricerca, tranne alcune rare eccezioni, non è può essere trasformato da in presenza, cioè con l’attività in laboratorio, in virtuale.  In altre parole, i ricercatori devono andare nei laboratori e usare i loro strumenti per poter produrre i dati scientifici.  Quindi, l’attività dei ricercatori nei singoli laboratori si è dovuta ristrutturare seguendo i protocolli di distanziamento sociale protezione individuale e disinfezione previsti dai vari protocolli nazionali e territoriali.

Infatti, un apposito Documento della Conferenza dei Rettori Italiani di giugno 2020 provvede a elencare le procedure per continuare le attività di laboratorio in accordo con i provvedimenti di legge che prevedono le protezioni individuali e il distanziamento sociale.  Naturalmente queste restrizioni hanno reso più complesso il quotidiano svolgimento delle attività di laboratorio e il portare avanti le ricerche programmate.

Sono aumentati i rischi di contagio per i giovani ricercatori e i loro docenti tutor e si è assistito ad un significativo ed inevitabile rallentamento delle attività di ricerca. Ma la situazione della ricerca scientifica ancora prima del Covid-19 non era certo buona.

In occasione della pandemia che ha sottolineato la situazione di grave sofferenza della ricerca, uno dei padri della ricerca il fisico Ugo Amaldi ha lanciato un appello controfirmato da molti illustri colleghi per sollecitare il governo ad aumentare in modo significativo gli stanziamenti pubblici per la ricerca.

L’appello chiedeva il raddoppio degli attuali stanziamenti e per un periodo congruo di anni.  Il ministro per l’Università e la Ricerca Scientifica Gaetano Manfredi ha risposto impegnandosi a richiedere uno stanziamento di 15 miliardi in cinque anni. Tuttavia, non sembra che tale richiesta sia stata accolta visto gli stanziamenti previsti nella legge di bilancio presentata ora in parlamento per l’università e la ricerca.

Cominciamo ad aver i dati sull’effetto del primo lockdown da Covid-19 sulla ricerca scientifica nel nostro paese. Un report della Società Italiana di Oncologia nato da un sondaggio al quale hanno risposto 570 ricercatori, di cui 178 responsabili di laboratori di ricerca, distribuiti in 19 regioni italiane ci dice che durante i tre mesi di chiusura la ricerca oncologica si è ridotta del 93%, con una sospensione totale delle attività di ricerca in presenza del 48% e parziale del 36%.

Non vanno trascurati gli effetti pratici di questa chiusura.  Infatti, secondo l’opinione del Dr. Nicola Normanno, direttore del Dipartimento di Ricerca Traslazionale dell’Istituto Tumori Fondazione Pascale di Napoli   “Un arresto del lavoro di ricerca anche solo di pochi mesi rischia di comportare un ritardo in termini di scoperta scientifica fino a due anni. Questo accade nel campo di una patologia, quella oncologica, per cui l’evoluzione delle terapie legata al progresso e all’innovazione influenza prepotentemente le opportunità di cura dei nostri pazienti. E non dimentichiamo che in Italia le nuove diagnosi di malattia neoplastica sono di circa 1.000 nuovi casi al giorno, esclusi i tumori della pelle“.

Durante il lockdown l’88,6% dei ricercatori ha svolto attività di ricerca in modalità “smart working”, mentre il 29% ha riconvertito la propria attività a supporto dell’emergenza Covid-19, concentrandosi in particolare sul sequenziamento del virus e sull’identificazione dei meccanismi alla base della patogenesi della malattia.

Il sondaggio rivela che, al termine del lockdown, il 19% dei ricercatori non aveva ancora ripreso le proprie attività e che nell’85% è stato organizzato un sistema di turnazione per riavviare l’attività di ricerca. Tuttavia, nella fase 2 per alcune categorie di personale erano ancora previste restrizioni di accesso fisico ai laboratori pari circa al 74% dei casi.  Inoltre, solo il 25% di tutti gli intervistati addetti alla ricerca sperimentale o clinica è stato sottoposto a tamponi o test sierologici al rientro in laboratorio, mentre per il 24% i test erano previsti, ma non ancora effettuati alla fine di maggio.

La situazione per gli altri campi della ricerca scientifica non è molto diversa tranne forse quella della fisica teorica e della matematica in cui i ricercatori presumibilmente hanno potuto continuare le loro ricerche in modalità “smart working” senza una discontinuità col lavoro svolto precedentemente.

Il ritardo nella circolazione dei risultati scientifici

Bisogna tenere conto che i ricercatori comunicano i risultati delle loro ricerche pubblicando articoli su riviste scientifiche internazionali, su queste riviste il lavoro svolto viene valutato dai colleghi ed eventualmente confermato o confutato da altre pubblicazioni.  La latenza media fra la produzione di un risultato scientifico e la sua pubblicazione è di circa 2 o 3 anni in condizioni normali.

Come vi ho mostrato da una parte il Covid-19 ha determinato un forte rallentamento delle attività di ricerca e dall’altra ha causato una forte polarizzazione della ricerca su tematiche focalizzate sulla pandemia o in qualche modo ad essa correlate.  Il risultato sarà probabilmente un forte ritardo nella pubblicazione dei dati scientifici non Covid-19 nei prossimi 3-4 anni.

Un altro canale di comunicazione dei risultati scientifici sono i congressi scientifici, nazionali e internazionali. Va notato però che per motivi di sicurezza non si tengono più i congressi scientifici in presenza ma solo per via telematica.  Questa modalità ha alcuni difetti, ma certamente permette una circolazione veloce dei risultati scientifici e in parte potrà compensare i ritardi accumulati e che si stanno ancora accumulando nel mondo della ricerca scientifica.

Media, politica, scienza e comunicazione

In contro tendenza al significativo rallentamento dell’attività di ricerca nei laboratori è invece aumentata l’attività mediatica di alcuni scienziati e ricercatori soprattutto dell’area bio-medica. Infatti, non passa pomeriggio o sera in cui in televisione, un numero relativamente alto di ricercatori, medici, professori universitari, ricercatori etc.  sia intervistato o rilasci dichiarazioni alla radio o sui giornali

Quale è l’effetto di questa pletora comunicativa spesso contraddittoria?

Riportiamo alcuni dati emersi da una ricerca sociale che la società Yakult Italia ha commissionato ad AstraRicerche, e condotta a fine maggio 2020 su un campione di 1019 italiani tra i 18 e i 65 anni e confrontata con un’analoga rilevazione del 2019.

Per quanto riguarda il grado di comprensione, anche nel 2020, nonostante la massiccia presenza mediatica di scienziati e medici negli ultimi mesi, 2 italiani su 5 considerano le informazioni scientifiche troppo difficili da comprendere. Aumenta paradossalmente di oltre il 10%, la quota di coloro che dichiarano di non comprendere quali scoperte scientifiche ritenere valide, date le frequenti contraddizioni.

Il periodo trascorso ha avvalorato nei cittadini italiani la convinzione (circa l’83% degli intervistati) che si dovrebbero ascoltare maggiormente gli scienziati prima di prendere decisioni sul futuro del paese.  D’altra parte, il continuo confronto del Governo con il mondo scientifico durante questi ultimi mesi ha fatto sì che diminuisse la quota di chi teme che in futuro la politica dia poco ascolto alla comunità scientifica (-10% circa rispetto al 2019).

Per quanto riguarda il giudizio sull’attendibilità di una notizia scientifica la voce di un’università vicina e quindi conosciuta pesa più di quella di organismi internazionali lontani come l’OMS. Inoltre, circa metà degli intervistati ha dichiarato di credere a una notizia se essa conferma qualcosa che già sa o se la sente da uno scienziato molto visto sui media. Solo 1 intervistato su 2 effettua inoltre una qualche forma di controllo dei fatti; solo 1 su 3 controlla se la notizia riporta una fonte.

Ma quanto tempo serve, secondo gli italiani, perché la scienza dia risposte chiare davanti a un nuovo fenomeno? Meno di un anno per quasi 1 intervistato su 2 e addirittura meno di 6 mesi per 1 su 5.

Probabilmente l’attesa ormai pressante di un vaccino contro il Covid-19 è una spinta che spinge molto in alto le aspettative sulla presunta rapidità dei tempi, nonostante lo stesso mondo scientifico abbia più volte avvisato della necessità di tempi ben maggiori per la ricerca e l’indagine scientifica.

Non abbiamo notizie se i nostri politici mediamente abbiano migliorato il loro rapporto con il mondo della scienza o se si siano posti seriamente la questione di una relazione più stretta fra amministrazione, governo e dati scientifici corretti.

A vedere i risultati prodotti dalle scelte politiche fatte fin qui c’è da avere seri dubbi.

Concludendo, anche in base alla mia esperienza pluriannuale come professore universitario e ricercatore, potrei avanzare alcuni suggerimenti per migliorare sostanzialmente la quantità e la qualità della ricerca in Italia: occorrono certamente fondi adeguati per la ricerca scientifica di un paese che ambisce ad essere moderno e sviluppato, ma occorre anche una cambio di cultura nella gestione delle nostre istituzioni universitarie, uno svecchiamento complessivo del sistema della ricerca, una riduzione drastica del precariato, un aumento sostanziale dei concorsi e una loro gestione con maggiore considerazione del merito e infine un cambio radicale di paradigma nel dialogo fra politica e ricerca.

 

Foto di Gerd Altmann da Pixabay 


Segui #lepilloledicittadinanzattiva

#lepilloledicittadinanzattiva