a cura di Monica Brandoli
Che cosa sta succedendo nel sociale? Tra i servizi essenziali nel sociale rientrano quelli per i senza dimora. Sono servizi che non solo devono restare aperti ma che nella nostra realtà sono stati addirittura potenziati.
In molte trasmissioni televisive si insiste su #iorestoacasa: è l’unico vaccino che abbiamo. Ma non tutti lo possono fare perché ci sono persone che una casa non ce l’hanno.
Per questo per noi che lavoriamo in questo ambito ha significato un aggravio ulteriore rispetto alla routine: si è messo in atto un sistema di protezione ancora più elevato, abbiamo convertito tutte le strutture per i senza dimora in strutture aperte h24 e prolungato la durata del Piano freddo, che consente di ospitare 300 persone, oltre la data di chiusura del 31 marzo fino al 30 di aprile per il momento.
I Servizi e le collaborazioni per realizzarli
Abbiamo concertato insieme al Cardinale Zuppi e alla Caritas la consegna dei pasti del pranzo nelle strutture.
Prima dell’emergenza della cena delle persone senza dimora si occupavano i volontari portando i pasti; attualmente devono lasciarli all’ingresso e gli operatori presenti provvedono alla distribuzione.
La Caritas, per evitare situazioni di contagio, ha previsto di fornire i pasti presso le strutture per evitare che le persone si spostino all’interno della città. Per il pranzo, prima del coronavirus, le persone si recavano nelle mense e stavano in fila, creando assembramenti.
Abbiamo collaborato con la Protezione civile e con l’assessore alla sicurezza affinchè fossero allestite all’esterno – nelle aree cortilive- delle quattro strutture maggiormente densamente popolate (“Capannoncino” via del lazzaretto, “Beltrame/Sabatucci” via Don Paolo Serrazanetti, “Villa Serena” via della Barca e “Casa Willy/Rostom” via Pallavicini).
La finalità è stata quella di migliorare la qualità della vita delle persone evitando così di restare tutto il tempo nel proprio posto letto.
Un servizio altrettanto importante è l’Help Center per cui gli operatori anziché avere una struttura fissa, quella di via Albani, sono continuamente in strada allo scopo di raggiungere il maggior numero possibile di persone. Questo servizio permette di contattare persone che sono rimaste in strada, mantenere una relazione perché non si sentano sole, abbandonate e escluse.
Raccontano agli operati gli interventi delle forze dell’ordine che chiedono a loro di spostarsi, creando un maggior disagio alle persone stesse.
Per loro spostarsi vuol dire non contare più sul vicino, l’abitante dell’appartamento dello stabile sotto il quale sostavano e che dava loro l’elemosina o sul bottegaio che regalava l’invenduto.
Non solo i negozi sono chiusi, ma anche l’imposizione della distanza di un metro fa sì che la gente non si avvicini per fare l’elemosina; senza contare il fatto che ci sono molte meno persone in circolazione e quindi minori possibilità di avere l’elemosina.
Pertanto per i senza dimora non si tratta soltanto di un distanziamento sociale ma di un rischio di maggiore esclusione sociale.
La quotidianità lavorativa
Il mio lavoro consiste nel supportare i servizi, organizzarli, creare raccordo tra loro perché ci sono mille imprevisti cui far fronte, e garantire interventi perché i servizi possano funzionare.
Ad esempio abbiamo ‘aperto dal 3 aprile un’ulteriore struttura con 30 posti: ci siamo resi conto da un lato che si faceva fatica a mantenere il distanziamento di un metro all’interno delle nostre strutture e dall’altro lato perché c’erano altre persone in strada, anche i cosiddetti irriducibili, che ci stavano chiedendo di poter entrare.
Di quei 30 posti, 15 sono stati riservati a persone che provengono dalle strutture esistenti nell’intento di decongestionarle e 15 per persone che provengono dalla strada. Persone che hanno chiesto un posto nelle strutture e che sino a pochi giorni fa preferivano restare in strada o dormire sugli autobus notturni piuttosto che accettare le regole di convivenza delle nostre strutture.
Attivare nuove strutture non è facile, l’allestimento, come pure l’organizzazione dell’apertura richiedono la predisposizione di atti amministrativi, la richiesta di preventivi, la redazione di determine, ma anche un lavoro di concertazione con le varie Direzioni del Comune e di ASP città di Bologna.
Riflettere su l’evento emergenziale per costruire il futuro
Svolgo tutto questo lavoro back per poter far sì che i servizi facciano il lavoro front senza dimenticare che bisogna sostenere i servizi anche nel pensiero perché il rischio maggiore in questo periodo è quello di agire e basta, di fare, di “stare sul pezzo”, come siamo soliti dire noi, ma non di costruire una riflessione su quello che sta accadendo e accadrà.
Siamo tutti preoccupati per le sorti delle persone più fragili, più povere, perché rischiano di continuare ad esserlo e di impoverirsi sempre di più.
Quando finiranno le restrizioni previste, che sia il 13 aprile, che sia i 4 o il 16 maggio sicuramente tutti noi saremo più poveri, in primis economicamente, ma saremo più poveri di relazioni, di libertà, di possibilità.
Non basteranno comunque i dispositivi di protezione che saremo in grado di mettere in atto: in tutti noi sarà radicata la paura dell’altro. Da questa esperienza usciremo modificati proprio antropologicamente: per noi l’altro sarà un portatore di possibile virus, che magari attualmente si chiama coronavirus, ma che chissà tra tre anni come si chiamerà.
Tra l’altro il coronavirus non finirà a maggio o a giugno: abbiamo ormai capito che la pandemia si espanderà e si propagherà per un periodo molto lungo, ci vorranno farmaci che ancora non ci sono, ci vorrà un vaccino che ancora non abbiamo.
Forse dopo un anno o più di distanziamento in cui noi continueremo a portare le mascherine, a proteggerci, a evitare luoghi affollati, subiremo una mutazione proprio rispetto alla nostra essenza, alla nostra umanità.
Questo comporterà che le persone più esposte, più vulnerabili, più fragili, che già stanno subendo delle esclusioni, lo saranno ancora di più.
Quotidianamente rispondiamo alle segnalazioni che arrivano, all’Assessore Barigazzi, ai Presidenti di quartiere, da parte di cittadini che segnalano i movimenti di una persona senza dimora che è stata vista in giro, che è uscita dalla struttura di accoglienza.
Non pervengono invece segnalazioni su ciò che accade nel quadrilatero: le foto pubblicate sul quotidiano “La Repubblica” e su fb mostrano decine di persone socialmente compatibili, che circolano alla ricerca del prodotto di qualità a cui non intendono rinunciare e che ovviamente si trova nel circuito del quadrilatero.
E’ la dimostrazione del fatto che per la cittadinanza la persona senza dimora è stigmatizzata perché considerata maggiormente portatore del virus; eppure finora nessuna persona senza dimora è risultata positiva al tampone.
Abbiamo avuto ben cinque ricoveri in questo periodo di persone con gravi problemi sanitari, che ci hanno preoccupato perché non sapevamo se i sintomi potevano essere compatibili con una diagnosi di covid-19, nemmeno i sanitari l’avevano escluso, ma fortunatamente in tutti questi casi il risultato del tampone è stato negativo.
Le persone senza dimora non si contagiano, in questo momento, semplicemente perché stanno tra di loro.
La gente comune non li vuole vicino. Molte persone pensano che sia da evitare uno mal messo, un po’ sporco, vestito male, col capello unto e una bottiglia di birra in mano -certamente un’immagine poco edificante- perché ritenuto un probabile portatore del virus.
Sociale e Sanità
Tornando alla nostra quotidianità vorrei segnalare la preoccupazione derivante dal fatto che, pur collaborando attivamente con la sanità, non abbiamo una modalità operativa da mettere in atto qualora avessimo all’interno delle nostre strutture una persona positiva al Covid-19.
In questo momento la sanità si occupa al 90% degli anziani: non deve morire nessun anziano nelle nostre strutture.
La persona anziana non è un peso, ma anzi una persona dalla quale noi dovremmo apprendere tanto e considerarla come in Cina dove l’anziano ha un valore culturale profondo e potente, contrariamente a quanto accade spesso nella nostra società.
Alla fine della giornata
Rientrata a casa alla sera mi sento molto stanca e preoccupata: se ripenso alla mia giornata lavorativa devo constatare che è trascorsa al telefono, a partecipare a riunioni via skype, a leggere e scrivere e mail, a raccordarmi con altri sevizi, a scrivere, a pensare arrivando a volte fino alle 16,30 del pomeriggio senza nemmeno aver bevuto.
Le rare volte che mi capita di staccare anche solo per 10 minuti, provo un senso di colpa per le risposte non date in quell’arco di tempo, forse perché mi sento molto responsabile nei confronti degli operatori, del loro lavoro, perché è un lavoro tanto prezioso quanto ahimè sottovalutato.
Monica Brandoli, responsabile Servizio contrasto alla grave emarginazione adulta, responsabile ad interim Servizio protezioni internazionali – ASP Città di Bologna
Grazie a Marilena Vimercati che ha trascritto il file audio che Monica Brandoli ci ha inviato
Foto di Shadesofnate da Pixabay