di Federico Licastro

Eccoci di nuovo a riflettere sulla situazione che stiamo condividendo da oltre un mese.
Il numero di positivi al virus è salito costantemente in queste settimane e come comunica giornalmente la protezione civile oggi, 27 marzo 2020, il numero dei positivi al Covid19 è di 80539!  Domani supereremo il numero di positivi comunicati dalla Cina circa 81.000.
La prima cosa su cui dobbiamo fare una riflessione è che il numero di positivi ai tamponi non dà assolutamente la misura dei contagiati dal virus nel nostro paese.  Infatti, pur tenendo conto delle differenti modalità di effettuazione dei test al coronavirus nelle diverse realtà regionali, il tampone viene prevalentemente somministrato a chi presenta i sintomi della malattia indotta dal Covid 19, eventualmente esteso a chi ha frequentato persone malate o positive al virus e al personale medico e paramedico. Queste modalità però sono diverse nei diversi territori.
Quindi i tamponi non vengono fatti in modo diffuso e il numero dei contagiati da Covid 19 è presumibilmente molto più alto in Italia di quanto il conteggio dei positivi attualmente rende ragione.
Quanto più alto può essere il numero dei contagiati?  Come già ho riportato in una precedente riflessione il numero potrebbe essere da tre a sette volte superiore a quello dei positivi al test.
Quindi il numero può variare da 241.617 a 563.773.  Temo però che queste stime siano molto prudenti e il numero attuale di chi ha contratto il virus durante gli ultimi due mesi nel nostro paese possa essere più alto.
Probabilmente una stima più attendibile del progredire dell’epidemia potrebbe essere data dal conteggio delle persone malate che giornalmente vengono ricoverate negli ospedali e dal numero di quelle che sono ricoverate nei reparti di terapie intensiva.  L’epidemia nei suoi spetti più gravi comincerà a dare segni di calo quando il numero di questi malati diminuirà in modo sensibile giorno dopo giorno per alcune settimane consecutive.
Si è parlato nei giorni scorsi che il Covid 19 come altri agenti pandemici rallenterà poi fino a fermarsi solo quando in una determinata popolazione avrà raggiunto un numero di contagiati pari al 40-60% degli individui.  Si sarà ottenuta la così detta immunità di gregge.  Cioè il numero molto alto di soggetti contagiati e divenuti immuni o protetti contro il virus farà da barriera impedendo al virus di espandersi ulteriormente nelle persone ancora non contagiate.
Quando si fa una vaccinazione contro un microrganismo si cerca di ottenere questo effetto vaccinando la stragrande maggioranza degli individui di una determinata popolazione anno dopo anno a cominciare dai bambini.  Per ottenere questo effetto occorre tempo, alcuni anni, ma l’effetto è sicuro; come è successo per il virus della poliomielite ora estinto nelle popolazioni di tutti i paesi occidentali.
Non c’è però alcuna garanzia che questo effetto si raggiunga spontaneamente nel caso del Covid 19 e nessuno sa se la protezione immunitaria contro il virus nei soggetti contagiati sia durevole. Inoltre, l’immunità di gregge raggiunta spontaneamente tramite la libera circolazione del virus comporterebbe un costo molto alto in vite, poiché il Covid 19 ucciderebbe un grande numero di persone fragili.
Quindi Boris Johnson nei primi giorni dell’espansione del virus in Gran Bretagna raccontava favole che presto ha dovuto smentire nei fatti, divenendo infine vittima delle proprie fake news.
Non avendo a disposizione nè terapie specifiche nè un vaccino, il distanziamento sociale è certamente uno degli ausili sanitari più importanti per ostacolare il diffondere del virus.  Diminuendo fino a interrompere i contatti fra le persone si rende più difficile al virus passare da un malato o da un portatore sano ad una persona non ancora contagiata.
Questa è la ragione della nostro rimanere in quarantena e rispettarla in modo rigoroso.
Si deve tener conto che il Covid 19 grazie alla sua capacità infettante diffonde molto velocemente da un soggetto positivo ad un altro negativo.  Il periodo di incubazione per l’inizio degli eventuali sintomi varia da tre a dieci giorni.
Nella grande maggioranza dei casi le persone infettate non presentano alcun sintomo.  In una percentuale incerta e ancora difficile da determinare, il Covid 19 provoca sintomi simil influenzali quali, febbre, mal di gola, tosse e congiuntivite.
In una percentuale ancora più ristretta di persone che non riusciamo a calcolare esattamente visto l’incertezza sul numero dei reali portatori/contagiati, il virus provoca una più grave sintomatologia a carico dei polmoni e le persone colpite devono essere ricoverate in ospedale per le cure del caso.  In circa il dieci/quindici per cento dei ricoverati la polmonite diventa molto grave e si deve ricorrere alla ventilazione assistita e alla terapia intensiva.  Sfortunatamente per l’alto numero di persone con grave polmonite moltissimi reparti di medicina generale e malattie infettive sono diventati di fatto delle terapie intensive in Lombardia e nel nord dell’Emilia-Romagna.
Il numero elevato di pazienti con grave sintomatologia respiratoria ha messo in emergenza molti ospedali del Nord Italia e i presidi ospedalieri di Bergamo, Brescia, Piacenza e altre provincie del Nord e di alcune città del Piemonte, Veneto e delle Marche.
Non tutti i pazienti con sintomi gravi o con polmonite interstiziale guariscono e sfortunatamente una parte di pazienti muore a causa dell’infezione da Covid 19.
Il modo di registrare le morti nel corso della pandemia varia da paese a paese in Europa.  In Italia se un malato infettato dal virus muore, la causa di morte è per Covid 19.
In altri paesi se un malato con altre patologie concomitanti gravi è infettato dal virus e non sopravvive spesso lo si considera deceduto per cardiopatia, cancro, o altra patologia preesistente e non entra nel numero di morti per Covid 19.
Sfortunatamente il numero delle vittime in Italia ha già superato il numero di vittime in Cina.
Come ci possiamo spiegare questo terribile risultato?
Ho accennato che la demografia della popolazione italiana è diversa da quella cinese. Anche quella dei contagiati è diversa poiché l’età media dei contagiati in Italia è al momento di 63 anni, mentre quella della provincia di Hubei è di 43 anni.
Fortunatamente in Italia i giovani, gli adulti e bambini sono risparmiati dal Covid 19.  Attenzione il virus li contagia, ma non da sintomi o solo sintomi lievi; quindi, anche i giovani e i bambini sono portatori del virus e possono trasmettere il contagio.  Ancora una volta il distanziamento sociale è l’arma che interrompe la trasmissione del Covid 19!
Attualmente in Italia i dati sulla mortalità da Covid 19 per fasce di età ci mostra che il tasso di mortalità, cioè la percentuale di deceduti sul totale dei casi positivi è zero prima dei trenta anni ed è compresa fra lo 0.3 % e 1,3 % fra 31 e i 59 anni, poi aumenta progressivamente con l’età, è il 3,5% fra i 60 -69 anni e sale al 13,5 % nella fascia 70-79. Dopo gli ottanta anni si osserva un tasso di mortalità di circa il 20%.
In Cina il tasso di mortalità è comparabile a quello osservabile in Italia fino ai 69 anni, ma molto più basso dopo i 70 anni rispetto a quello riscontrato nel nostro paese.
Il discorso è diverso se si considera la mortalità percentuale sul totale dei deceduti per fascia di età. E’ sempre zero prima dei trenta anni, compresa fra lo 0,3 e il 3% fra i 31 1 i 59 anni, il 9% fra i 60 -69 anni, il 36% fra i 70 e i 79 anni e il 53% dopo gli 80 anni. In Cina la percentuale più elevata di deceduti si è riscontrata nelle fasce di fra i 50-79 anni (72% cumulativo).
Le differenze osservate con la popolazione cinese sono principalmente dovute ad una diversa distribuzione demografica fra i due paesi.  In Cina sono molto meno le persone che raggiungono e superano gli ottanta anni e si possono considerare anziane le persone dopo i 55 anni.
Quindi l’età è di per sè un forte fattore di rischio che predispone a forme gravi dell’infezione e condiziona in modo significativo la mortalità.
In Italia e in molti paesi europei come la Spagna il numero di persone anziane in rapporto alla popolazione totale è elevato e in particolare lo è il numero di anziani oltre i settantacinque anni.
In queste fasce di popolazione il Covid 19 provoca sintomi più gravi ed estesi ed è molto più frequente il riscontro di gravi polmoniti interstiziali con insufficienza respiratoria.
Con l’età le capacità del nostro sistema difensivo diminuiscono e le risposte immunitarie contro il Covid 19 possono essere meno efficaci nelle persone in età avanzata.
Sfortunatamente si aggiungono altri fattori, infatti moltissimi anziani prima dell’arrivo del Covid 19 già presentano una salute precaria.  Infatti, circa il cinquanta per cento dei ricoverati deceduti in Italia ha contratto il virus avendo già tre malattie croniche in atto, quali ad esempio, ipertensione arteriosa, insufficienza respiratoria, insufficienza renale, diabete, cardiopatie o cancro.  Inoltre, il ventisette per cento dei contagiati in età avanzata già soffriva di due patologie croniche.
Questa situazione probabilmente ha reso più grave la morbilità e la mortalità causata dal Covid 19 nel nostro paese.
Vi sono inoltre fattori socioeconomici che aumentano ulteriormente la vulnerabilità di queste persone al virus. Una parte dei nostri anziani vive da solo e quando presenta sintomi, vista l’emergenza nazionale, potrebbe ricevere assistenza adeguata solo dopo alcuni giorni; questo ritardo può essere fatale.
Una parte delle persone anziane vivono in strutture protette. In caso di epidemia vivere in comunità numerose può aumentare la probabilità e la velocità di diffusione del virus fra questi ospiti fragili con effetti gravi sulla mortalità.
Il Covid 19 sta eseguendo una specie di crudele stress test sulla demografia del nostro paese e ci fa scoprire che siamo uno dei paesi in cui si vive più a lungo, ma anche che i nostri anziani non sono molto in salute.  Infatti, viviamo più a lungo, ma con più anni di disabilità a causa della presenza di una o più malattie croniche.
Ormai in Italia circa il 22 per cento della popolazione è composto da cittadini con più di 65 anni e fra questa fascia di popolazione molti anziani soffrono almeno di una patologia cronica (il 40%), mentre prima dei sessantacinque anni solo il sette percento soffre di una malattia cronica.
Tutte queste persone grazie ai progressi della medicina moderna, all’efficiente organizzazione della sanità e dei serizzi sociali, ai farmaci e stili di vita migliorati convivono con le patologie.
L’arrivo però del Covid 19 cambia radicalmente la realtà e mette sotto stress i fisici già indeboliti dalla presenza di una o più malattie e gli effetti sono devastanti.
In Italia è stato varato nel 2016 un Piano Nazionale della Cronicità che impegnava le regioni a promuovere politiche attive per un miglioramento dell’assistenza e delle cure dei malati cronici, ma solo alcune regioni hanno attivato programmi effettivi e operativi.  Anche la nostra associazione Cittadinanza Attiva, sia a livello nazionale che regionale, ha stimolato le regioni a varare strumenti idonei, ma con risultati disomogenei dovuti al diverso impegno delle sanità regionali.
Dopo il passaggio della tempesta causata dal Covid 19 molto di più si dovrà fare su questo fronte e con particolare riguardo alla prevenzione delle malattie cronico-degenerative che deve coinvolgere fasce più giovani della popolazione a partire dai quaranta anni.
Aumentare il grado di salute della nostra popolazione e migliorare quella delle fasce d’età più anziane anche con la prevenzione su larga scala renderà intrinsecamente più resistenti alle prossime epidemie i nostri cittadini.
L’epidemia in atto può essere considerata una specie di stress test per molti sistemi sociali e politici italiani, dalla protezione civile, al governo, alle amministrazioni regionali fino ad arrivare ai comuni.  L’insieme delle istituzioni che hanno il compito di fronteggiare l’emergenza corrente sono messe alla prova dal Covid 19.
In che condizioni il Covid 19 ha trovato il nostro sistema sanitario?
Ci sono molti modi di valutare l’efficienza del nostro servizio sanitario e si possono consultare varie statistiche e rapporti che mettono a confronto i diversi sistemi sanitari nel mondo e in Europa.
Il sistema sanitario nazionale italiano è ritenuto uno dei migliori al mondo, ma su quali basi si regge questa valutazione?
Certamente il report annuale che l’agenzia Bloomberg fornisce in materia dà conforto al giudizio positivo sul nostro servizio sanitario.  Infatti, il rapporto di questa agenzia mette al quarto posto per il 1918 e al secondo posto per il 2019 il sistema sanitario italiano.  Ma come si giunge a questo risultato e quale sono le variabili prese in considerazione?
Il rapporto Bloomberg confronta fra loro i paesi con un PIL pro capite uguale o superiore ai 5000 dollari, una popolazione superiore ai 5 milioni di abitanti e un’aspettativa di vita di almeno 70 anni.
Quindi, calcola il rapporto fra spesa sanitaria pro capite e aspettativa di vita.  Per cui nella classifica del 2018 Hong Kong risulta prima, Singapore seconda, la Spagna terza e l’Italia quarta, in quella più recente del 2019 l’Italia risale alla seconda posizione.
Dobbiamo tener conto che pesa in questa graduatoria l’aspettativa di vita che però è una variabile condizionata da molti fattori, quali il clima, ambiente, l’inquinamento, la dieta, gli stili di vita, il reddito familiare e il grado di istruzione.  Quindi, l’efficienza del sistema sanitario è diluita
da una serie di variabili diverse.
I dati OCSE, organismo per la cooperazione e lo sviluppo economico, nel 2018 riporta che l’Italia spende il 6,5 % del Pil in risorse pubbliche per la sanità.  La media dei 27 paesi UE è 6,6 %; la Germania spendeva il 9,5 % del Pil, la Francia il 9,3% e il Regno Unito il 7,5%.
L’Italia aveva 3,2 posti letto ospedalieri per 1000 abitanti, in calo dal 2000 al 2017 del 30 per cento; con una media UE nel 2018 di 5 posti letto per 1000 ridotti del 13% dal 2000 al 2017.
L’Italia ha un numero di medici pari a 4 per 1000 abitanti contro una media UE di 3,6, ma l’età dei nostri medici è di 55 anni contro una media UE di 45 anni. Il numero di infermieri è di 5,8/1000 contro la media UE di 8,5/1000.
Un più recente rapporto OCSE uscito a febbraio 2020 fotografa la situazione sanitaria come segue.
La speranza di vita alla nascita in Italia nel 2017 è 83,1 anni, la media Europea è 80.9.
L’istruzione influenza la speranza di vita.  Infatti, fra i detentori di alto titolo di studio la speranza di vita dopo i 30 anni in Italia è 57,6 per le donne e 54,1 per gli uomini.  Fra gli italiani con bassa istruzione lo stesso parametro è 54,7 per le donne e 49,6 per gli uomini.
I tassi di mortalità per infarto cardiaco (30 giorni ospedalizz. /100 ricoveri) nel 2017 risultavano del 7,5% in Italia e 9% nella media UE. La mortalità per questa patologia era massima in Lettonia con il 16% e minima in Slovenia col 6%.  Quindi la sanità italiana se la cava bene per questo tipo di patologia cardiaca.
Risultano interessanti altri indici che valutano non solo la sanità ospedaliera ma anche quella territoriale.  Ad esempio, il tasso di ricoveri evitabili standardizzati per età e per 100.000 abitanti con età superiore ai 15 anni per l’asma e la BPCO erano 50 per l’Italia contro una media UE di 220.
Per l’insufficienza cardiaca congestizia 320 per l’Italia contro una media UE di 510.  Infine, per il diabete 470 per l’Italia contro la media UE di 610.  Quindi, il sistema sanitario italiano ha raggiunto un livello molto buono considerando anche le risorse allocate rispetto al PIL in cui il nostro paese è solo quindicesimo nella classifica europea.
Però se si valuta il grado di insoddisfazione per l’accesso ai servizi sanitari (% di bisogni non soddisfatti) in base al reddito, il grado di insoddisfazione in Italia è più alto per i redditi bassi (4,8%) che fra i detentori di redditi alti (0.7%) con una media nazionale di 1,7%, mentre quella UE è 1,2.  In altre parole, in Italia le persone più povere hanno maggiore difficoltà a usufruire dei servizi sanitari.
A questo riguardo vorrei riportare un altro rapporto del 2014, l’Euro Health Consumer Index (EHCI), che metteva a confronto i 28 diversi sistemi sanitari europei a seconda dei giudizi dei pazienti/utenti.
La società svedese che ha elaborato il rapporto ha impiegato 48 indicatori, un punteggio complessivo di 1000 punti e ha incluso diverse aree di valutazione che comprendevano:
Diritti dei pazienti e informazioni ricevute
Accessibilità e tempi di attesa
Risultati di salute
Offerta dei servizi
Prevenzione
Prodotti farmaceutici
Il paese primo classificato è risultato l’Olanda, con la Svizzera seconda e la Norvegia terza.
L’Italia figurava al ventiduesimo posto; la Spagna si piazzava al diciannovesimo, precedendo il nostro paese.
Come si può vedere nel giudizio degli utenti la nostra sanità scende molto di classifica, ma dobbiamo tenere conto che nel nostro paese c’è una forte disomogeneità territoriale dovuto al fatto che la sanità e i servizi territoriali sono gestiti dalle regioni.
Le regioni del Nord Italia non si discostavano molto dal punteggio medio complessivo UE, mentre quelle del Sud e delle isole avevano punteggi molto bassi.
Questa realtà di diseguaglianza assistenziale italiana viene fotografata nel rapporto OCSE 2020 che riporta i punteggi delle sanità regionali italiane in base alla loro capacità di garantire i LEA (livelli essenziali assistenziali).
I punteggi migliori sono appannaggio delle regioni del nord Italia: Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Piemonte, Toscana e Friuli Venezia-Giulia.  Punteggi più bassi erano attribuiti alla Valle da Osta e alla provincia Autonoma di Bolzano.
Poi come si passa ai sistemi sanitari del centro, del sud Italia e delle isole il punteggio scende in modo significativo.
Solo in parte può compensare questa disomogeneità la presenza e il lavoro dei medici di famiglia che di fatto è il presidio sanitario più vicino ai cittadini e che svolgono un’importante opera di prima assistenza e filtro con la rete degli ospedali.  Affiancano i medici di medicina generale i poliambulatori pubblici.
Infine, contribuiscono all’assistenza sanitaria dei cittadini un’ampia rete di ambulatori, di ospedali e cliniche private diversamente integrate con la sanità pubblica ancora una volta a seconda della regione.
In conclusione, la fotografia che emerge della realtà sanitaria nazionale attuale è nel complesso buona, ma una delle caratteristiche salienti è la disomogeneità.  Questa disomogeneità territoriale, frutto storico delle diverse realtà regionali e della gestione territoriale del consenso elettorale è fonte di diseguaglianze assistenziali che non rispettano pienamente il dettato costituzionale a tutela della salute.
Quindi, parlare di un sistema sanitario come un’unica entità nazionale non corrisponde ad una realtà effettiva. Al di là della grande preparazione del personale medico e paramedico, il cui sacrificio è in questi giorni sotto gli occhi di noi tutti, in Italia esistono sistemi sanitari con diversa capacità di risposta e copertura delle esigenze delle rispettive popolazioni e questo è un elemento di forte debolezza in generale per le sfide sanitarie presenti e future.
Il Covid 19 al suo arrivo in Italia trova un sistema sanitario qualitativamente e regionalmente diverso, prevalentemente attrezzato nel rispondere a patologie acute non infettive e non trasmissibili attraverso la rete dei medici di famiglia, poliambulatori e degli ospedali pubblici e privati.
Quando però si tratta di fronteggiare una pandemia i medici di famiglia e il sistema ospedaliero non bastano per la lotta al virus.
Infatti, risulta evidente che un’epidemia viene meglio affrontate quanto più precoci sono le misure restrittive e di contenimento attuate dopo i primi contagi.  Queste misure però non sono competenza di medici di famiglia, ospedali e ambulatori. La diffusione del virus in Italia è ancora grave in parte a causa delle misure restrittive tardive e incomplete messo in atto durante il primo mese epidemico.
Inoltre, gli ospedali e gli ambulatori se invasi dai contagiati e dai malati dal Covid 19 possono a loro volta diventare fonte importante di contagio per gli altri ricoverati e i loro parenti, ma soprattutto per il personale medico e paramedico se non vengono attuate misure di protezione stringenti.
Ma se i medici e gli infermieri si contagiano come combatteremo l’epidemia?

 

Foto da Pixabay,@Michael Gaida

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