E’ così che viene ricordato da molti il 2 giugno 1946, quando per la prima volta le donne parteciparono ad una votazione di enorme rilievo.

Quel giorno si gettavano le basi di una nuova struttura giuridico-politica del nostro Paese: si votava per il referendum monarchia o repubblica (gli italiani scelsero la repubblica con 12.672.767 voti, mentre la monarchia ottenne 10.688.905 voti) e per l’elezione dell’Assemblea Costituente.

Il 2 giugno 1946 rappresenta un momento memorabile della nostra storia anche perché a questa scelta contribuirono – per la prima volta – le donne con il loro voto. L’affluenza femminile alle urne fu altissima, in alcune zone addirittura superiore a quella maschile: era una chiara dimostrazione che le donne erano più che pronte a dare un contributo attivo alla gestione della cosa pubblica e che finalmente potevano esprimere le loro scelte e le loro aspettative.

Quel giorno era il risultato di una lunga e tormentata storia, che era iniziata molto tempo prima e che era costata molte sofferenze di ogni tipo.
Le donne avevano ben presente che il diritto al voto era fondamentale per cercare di superare la condizione di inferiorità in cui versavano e sin dai primi movimenti femministi (affermatisi fra l’ottocento ed il novecento) lo avevano posto fra i loro obiettivi.
In particolare il movimento delle “suffragette”, nato in Inghilterra, contribuì in modo determinante all’adozione del suffragio universale, anche se le donne inglesi non furono le prime, nel 1928, a poter votare: in Europa la Finlandia lo aveva reso possibile nel 1906 e la Nuova Zelanda già dal 1893.

Non vi è dubbio che la negazione del diritto di voto alle donne è stata una delle più gravi espressioni di intolleranza e di discriminazione: le donne non erano in grado di partecipare alla vita politica del Paese, perché, si sapeva, erano per loro natura emotive, fragili, facilmente influenzabili e del tutto inadatte a rivestire cariche pubbliche.
In realtà, si sanciva, in tal modo, la loro congenita inferiorità rispetto agli uomini e l’impossibilità di far sentire la loro voce, relegandole in ruoli e luoghi predefiniti in base a logori stereotipi: le donne potevano esprimersi nell’ambito familiare (sotto la stretta tutela maschile) e nella loro casa.

Invero il suffragio universale era stato oggetto di alcuni provvedimenti, ma sempre declinati al maschile. Basti pensare che nel 1912 fu approvata una legge che prevedeva il voto per tutti gli uomini, anche analfabeti se superavano i trent’anni di età, ma non per le donne.
E’ evidente che il voto femminile rappresentava una vera minaccia all’ordine maschilmente costituito e che, pertanto, non poteva essere adottato.

Tuttavia, il Novecento è stato un periodo denso di grandi avvenimenti, che hanno contribuito a modificare sostanzialmente l’assetto sociale anche del nostro Paese e che hanno indotto a indispensabili ripensamenti.
La rivoluzione industriale, che richiedeva una quantità di mano d’opera, aveva determinato l’abbandono delle campagne e l’introduzione delle donne nelle industrie, allargando così anche ad esse il mercato del lavoro e le guerre avevano costretto gli uomini a lasciare necessariamente le attività produttive nelle mani delle donne, che poterono dimostrare di non essere inferiori a nessuno.
Come disse Sibilla Aleramo “Si dovevano toccare gli abissi dell’orrore e della tragedia perché gli uomini si convincessero a chiedere l’aiuto delle donne nella società e nella politica”.
Le donne italiane acquisivano così, sul campo, il diritto a chiedere con sempre più forza di poter partecipare attivamente alla vita pubblica.
Nel 1944 veniva presentata la prima formale richiesta della Commissione per il voto alle donne dell’Unione Donne Italiane (successivamente, anche per il diritto alla eleggibilità); complessivamente, prima del 1946, furono presentate venti richieste analoghe, tutte respinte.

Si deve arrivare al 1° febbraio 1945, quando, con uno storico decreto legislativo, su richiesta di Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi, il Consiglio dei Ministri presieduto da Ivanoe Bonomi, riconosceva il diritto del voto alle donne, anche se ne restavano escluse le prostitute che “esercitavano il meretricio fuori dai luoghi consentiti”, realizzando così, comunque, un’ultima discriminazione a danno di una categoria femminile.
Occorse, poi, un altro decreto (del 10 marzo 1946) per introdurre l’elettorato passivo a favore delle donne, che, finalmente, divennero cittadine con pieni diritti elettorali e non per concessione, ma in riconoscimento di un diritto e dell’impegno profuso.

Le prime votazioni a pieno suffragio universale furono le elezioni amministrative del marzo-aprile 1946, ma ben più importanti erano quelle del successivo 2 giugno, che videro, per la prima volta, ventuno donne elette nell’Assemblea Costituente (che contava 556 componenti) e cinque di esse incluse nella “Commissione dei 75”, che doveva elaborare e proporre un progetto per la nuova Costituzione.
Certo, quello femminile era un piccolo manipolo, ma composto da donne forti e determinate, capaci di lasciare una impronta in molte norme sui temi della parità e dell’emancipazione femminile.

All’epoca le donne non erano titolari di molti diritti civili: era ancora rilevante la potestà del padre e del marito, non potevano accedere a tutte le Pubbliche Amministrazioni (come ad esempio la Magistratura e la Diplomazia), rischiavano il licenziamento per matrimonio, non avevano parità di salario e non avevano parità neppure in famiglia, la legge prevedeva il delitto d’onore e il reato di adulterio; solo con leggi successive si erano introdotte norme più eque, che trovano sempre il loro fondamento nei valori costituzionali.
Non solo: le nostre straordinarie “madri costituenti”, che erano diverse fra di loro, per appartenenza a differenti partiti politici, per età, cultura, posizione sociale e professione, riuscirono a fare fronte comune, con unità di intenti e di azioni, ben consapevoli che solo così potevano conseguire i loro obiettivi, dimostrando così che solo la coesione consente di superare gli ostacoli, messaggio e monito che purtroppo non sempre, in seguito, sono stati recepiti.

Sicuramente la conquista del voto segnò un passo determinante sulla via della parità di genere, ma non rappresenta un punto di arrivo, perché se molta strada è stata fatta, ancora tanta è quella da percorrere.

Ancora oggi la presenza delle donne nelle istituzioni e nei ruoli decisionali non è paritaria: la popolazione è in maggioranza femminile ma è rappresentata solo per circa un terzo dei parlamentari, non abbiamo mai avuto una donna come Presidente della Repubblica o come Primo Ministro, nelle Pubbliche Amministrazioni le donne ai vertici sono in netta minoranza e così via.
Ma soprattutto permane gravissimo il problema della violenza sulle donne, che continua ad essere esercitata nelle forme più disparate e senza alcuna tregua; ogni giorno la cronaca registra episodi che spaziano dal femminicidio all’oppressione psicologica, nonostante le leggi abbiano cercato di reprimere e arginare questo triste fenomeno.
Non era certo questo che si aspettavano le donne che, con tanta emozione, hanno votato per la prima volta e non è questo quello che volevano le “madri costituenti”.

Ancora oggi non si deve abbassare il livello di attenzione e dare per scontata l’acquisizione di diritti che la legge prevede, ma che possono sempre essere messi in discussione, più o meno apertamente o che possono essere negati nel loro concreto esercizio, e, oggi più che mai, si sente l’esigenza di una tutela attenta e costante dei diritti così faticosamente riconosciuti alle donne, più che di nuove enunciazioni normative.
Solo così il percorso verso una piena e completa emancipazione femminile, iniziato tanto tempo fa, potrà proseguire con esito positivo e potremo coltivare la memoria del passato senza delusioni o rimpianti, ricordando sempre quel fatidico 2 giugno 1946 come una vera, autentica bellissima giornata.

di Maria Antonietta Sassani

(in apertura: manifesto dell’iniziativa di Wikipedia “Art + Feminism”, immagine tratta dalla pagina Facebook ufficiale)


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