La pandemia del coronavirus ha manifestato ancora di più la gravità dell’emergenza lavoro e quindi la necessità di individuare presto delle possibili risposte. Cittadinanzattiva Emilia Romagna, nella precedente newsletter (“E’ venuto il tempo di prenderci cura dell’emergenza lavoro”), ha messo in evidenza nuovi bisogni e orientamenti, legati a tale emergenza, ma anche nuovi ambiti imprenditoriali e di lavoro che scaturiscono dalle molteplici sperimentazioni delle buone pratiche sociali, pubblicate nel sito di Buone Pratiche Sociali.

Oltre a sottolineare la rilevanza della capacità creativa e progettuale di tali esperienze, credo sia importante riconoscere il valore dell’impegno sociale messo in campo da tanti cittadini e operatori socio-sanitari. Proprio per questo ho pensato che fosse importante dare voce ad alcuni professionisti esperti in ambito socio-sanitario.
Le quattro testimonianze, che vengono riportate qui di seguito, pur facendo riferimento ad esperienze professionali legate a ruoli e contesti molto diversi, hanno i seguenti elementi comuni:
• un “approccio operativo abilitante” che si propone di valorizzare le competenze relazionali, le risorse delle persone e le loro buone pratiche sociali;
• un’azione professionale sempre tesa a valorizzare i ruoli lavorativi, a qualificare le funzioni e i contesti operativi, a migliorare la qualità del lavoro;
• un ampio utilizzo di metodologie e strumenti propri della cultura e della pratica sociologica.
Tali testimonianze, oltre a rappresentare significativi punti di vista, ci possono fornire nuovi scenari e possibili percorsi operativi su come prenderci cura dei problemi del lavoro.

Un grande grazie quindi a Leonardo, Nadia, Olga e Paola, per la loro qualificata collaborazione.
Insieme a loro rimaniamo in attesa delle Vostre preziose osservazioni, valutazioni, esperienze, idee e proposte che ci potete inviare al seguente indirizzo: buonepratichesociali@cittadinanzattiva-er.it

Buon Primo Maggio, Festa del lavoro!
Walther Orsi

Cosa comporta la crisi sanitaria, economica, occupazionale per i più deboli

L’emergenza sanitaria da coronavirus, grave per i suoi effetti sulla salute, innanzitutto, ma anche sulle condizioni di vita e la socialità delle persone, si incrocia con l’incombente, altrettanto preoccupante crisi economica e occupazionale, che si prolungherà per molto tempo ancora.
Nei due mesi intercorsi dal manifestarsi della epidemia, a livello nazionale sono andati persi o a repentaglio 3 milioni e seicentomila posti di lavoro; per la regione Emilia Romagna si tratta di almeno 350.000 persone che possono non avere più una occupazione e una regolare retribuzione, spesso ai limiti della sussistenza.
Stiamo parlando, quindi, di numeri elevatissimi, che portano i tassi di disoccupazione ai livelli della precedente crisi che dal 2008 ancora non abbiamo completamente superato (per quanto nella nostra regione la ripresa sia stata migliorativa), con effetti moltiplicatori sulle famiglie dei disoccupati e gravissime conseguenze per i cittadini più deboli, quelli già esposti in periodi ordinari a rischi di esclusione.
Se pensiamo, infatti, alle persone disabili, fragili-vulnerabili, agli svantaggiati per ragioni personali e sociali, sovente con problemi di povertà e abitativi, in situazione di prolungata inoccupazione-disoccupazione, i danni arrecati dal combinato della crisi sanitaria ed economica si traducono immediatamente in crisi sociale, che compromette migliaia di destini individuali.
La chiusura delle scuole dal 24 febbraio scorso si è accompagnata al blocco della istruzione professionale e dei percorsi di orientamento, formativi, di accompagnamento al lavoro di molti giovani e adulti appartenenti a questa fascia di disagio impedendo le pur limitate possibilità di avvicinarsi al mondo del lavoro e, per alcuni di loro, di essere assunti nelle nostre aziende.
Sono tuttora congelati i cospicui finanziamenti europei e regionali destinati a finalità inclusive e non c’è alternativa di apprendimento (on line) per chi già non possiede o non usa dispositivi informatici e solo all’interno di contesti appropriati (di imprese profit o cooperative), tramite stage e tirocini pratici, può concretamente acquisire le competenze minime per la propria occupabilità.
Anche in periodi ordinari, senza criticità di sistema, la percentuale di occupazione per queste persone si aggira solo tra il 15 e il 30 % degli aspiranti; nella situazione attuale e in quella che si prospetta, con il fermo attività educativa/formativa, il blocco temporaneo e la chiusura definitiva di molte aziende, le possibilità si azzerano drammaticamente.
Senza possibilità di lavoro e, spesso, senza reti di sostegno parentali, amicali, di vicinato (si pensi ai senza dimora e ai migranti al bando per i “decreti sicurezza”), queste persone rischiano l’isolamento, la solitudine e molte di loro letteralmente la fame, con derive nell’illegalità; non altrove, in qualche lontano paese del terzo mondo endemicamente povero, ma da noi, nella civilissima e ricca terra emiliana, a Bologna.
Le organizzazioni del terzo settore (associazionismo, cooperazione sociale, volontariato laico e religioso), assieme al mutualismo di base e alla solidarietà dei cittadini stanno facendo quello che possono, per arginare la marea montante di disperazione che ancora non si è conclamata in tutta la sua estensione e profondità.
Questi attori, corpi intermedi della società civile, possono fare ancora di più in collaborazione sinergica con con gli enti locali, a partire dai Comuni e, proponiamo noi, tramite una maggiore coprogrammazione, coprogettazione, cogestione delle risposte da porre in essere, “con” e non “per” o “su” le stesse persone in situazione di disagio, parte attiva da coinvolgere “operosamente” nelle comunità di appartenenza, in mancanza di lavoro retribuito tradizionalmente inteso, con impieghi socialmente utili.
Le pubbliche istituzioni e i servizi di territorio dovrebbero, a loro volta, disporsi in tale senso e intervenire con azioni straordinarie, alleggerendo da un lato le procedure burocratiche, aprendosi all’innovazione sociale e prevedendo risorse economiche aggiuntive da mettere a disposizione, quantomeno temporaneamente (vorremmo dire, stabilmente !), con misure di sostegno organico al reddito (adesso Reddito di Cittadinanza, domani Reddito di Base ?), non vincolate a rigidi parametri e protocolli, per le persone più esposte.
E’ a partire dall’attenzione per gli ultimi che si possono attivare soluzioni all’altezza della complessità del momento, finanche inedite, generative di socialità, appartenenza, per un welfare e politiche attive del lavoro di prossimità, estendibili in prospettiva alla collettività.
In fondo, questo ci insegna il coronavirus, adesso e in futuro siamo tutti più fragili e vulnerabili, accomunati alle stesse sorti dei meno fortunati.

Leonardo Callegari

Una testimonianza in tempi di “emergenza coronavirus”

L’avvento del Covid 19 oltre a sconvolgere a livello economico e politico-amministrativo molti ambiti operativi sta inibendo le normali relazioni ed abitudini sociali, delimitando il nostro tempo e spazio, le nostre pratiche religiose e obbligando il Paese all’adozione di una politica economica straordinaria. Oggi in tale situazione pandemica, dopo un periodo in cui s’erano tanto valorizzate le politiche di “invecchiamento attivo” ci si ritrova davanti a normative che impediscono volontariato e assistenza a coloro che operano nel Terzo Settore, con età superiore ai 65 anni.
Si sa: in Italia, dove manca il lavoro e dilaga la disoccupazione giovanile, per surrogare uno stipendio mancante o insufficiente c’è la pensione di un nonno o di una nonna. Sull’emergenza lavoro, causata da globalizzazione e attualizzazione di nuovi modelli produttivi, le forze istituzionali, imprenditoriali e sociali non potranno più tergiversare. In questa fase storica si stanno evidenziando, insomma, tutti quei problemi che da tempo si cercava di tamponare e che condizionano la progettualità di vita di tanti giovani, così come la scarsa attenzione al degrado ambientale e sociale (vedi l’Enciclica Laudato si’ di Papa Francesco). Anche la flessibilità lavorativa, proposta da molti a suo tempo come carta vincente per aumentare l’occupazione femminile, sembra spesso nascondere al suo interno molte piaghe e processi difficili da definire. Questa crisi economica, sociale ed etica, strutturale e sistematica, è stata, insomma, totalmente disvelata dall’emergenza coronavirus. Quindi all’avvio dell’auspicata “fase 2” d’uscita dalla gestione emergenziale sarà urgente, come sostengono tanti eminenti studiosi, elaborare, in un’ottica di sussidiarietà e democrazia, un vasto progetto da cui ripartire nel quale prenda corpo un processo di de-burocratizzazione e in cui il cosiddetto “Terzo Settore” possa svolgere finalmente un ruolo importante fondato sull’ordine sociale, come frutto dell’interazione fra Stato, mercato e società civile. Da qui l’esigenza di riflettere sugli effetti dei commerci, delle produzioni, degli allevamenti, dell’accesso al cibo e all’acqua pulita per ripensare lo sviluppo della terra, l’impatto dell’umanità e il diritto alla salute, vivendoli soprattutto come problemi di salute pubblica.
Traendo alcune riflessioni dall’elaborazione delle analisi sociologiche di Luhmann e Ardigò, s’affaccia a noi la consapevolezza che in una società complessa come la nostra, la politica, da sola, non può risolvere tutti i problemi sociali, non potendo più disporre di un centro decisionale globale. Lo Stato Sociale deve rinunciare alla pretesa di rispondere a tutti i bisogni dei suoi cittadini non autosufficienti, e adottare un approccio sistemico fortemente selettivo rispetto alle rivendicazioni sociali. Tale selettività non comporta solo negazione ed esclusione, ma rende più evidente che per la cura di tante malattie sociali (figuriamoci quindi una pandemia) è lo stesso ambiente sociale che può fornire risposte più pertinenti, rispetto al welfare. Quest’ultimo infatti può disporre soltanto di mezzi come denaro, norme, burocrazia, che spesso vengono utilizzati con scarsa efficacia, mentre per il trattamento di alcune malattie (tra cui la pandemia) occorrono comunicazioni intersoggettive che possono essere meglio fornite da un ambiente sociale che si differenzia e quindi si organizza e si responsabilizza. Ardigò ribadisce come la sociologia debba mantenere un riferimento alla realtà empirica, così come i valori ed i criteri di giudizio debbano trovare il loro fondamento nella coscienza individuale, all’interno della tradizione della democrazia occidentale. Secondo questa teoria si rafforza la necessità di passare dal Welfare State al Welfare Society garantendo ai lavoratori e alle lavoratrici con figli minorenni di poter far fronte ai bisogni di cura, relazione ed educazione, senza penalizzare troppo le donne, che se oggi vogliono lavorare, devono dividersi, a volte in maniera estenuante e non sostenibile, tra lavoro e cura.
Nel progetto educativo della “fase 2” dovrà essere anche rivista la modalità di raccordare scuola e servizi educativi con il mondo del lavoro, affinché le imprese possano usufruire di forze giovanili competenti. Per soddisfare il bisogno di sicurezza le strategie istituzionali dovranno puntare sempre più sulla capacità, da parte di ogni membro della comunità e del Terzo Settore, di cooperare, al fine di rafforzare un legame sociale volto al benessere sociale. Il riconoscimento delle proprie fragilità e altrui ci costringerà a riconciliarci con i nostri limiti nonché a riscoprire valori quali la resilienza, il coraggio e – perché no? – la speranza! Resilienza, quale capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici e destabilizzanti. Coraggio: quello autentico dimostrato da tanti medici, infermieri operatori socio-sanitari, sacerdoti, che hanno affrontato in prima linea situazioni a rischio. E infine la speranza, energia necessaria per superare il “trauma” derivato dall’indifferenza, dalla superficialità, dai limiti della scienza e per riscoprire valori come la relazione, l’amicizia e la solidarietà. È questa la migliore eredità da trasmettere alle generazioni future.

Nadia Lodi

Emergenza lavoro: testimonianza e proposte di una giovane sociologa

Il mercato del lavoro vive da anni una profonda crisi sistemica, al cui interno si sviluppano vere e proprie emergenze umane; basti pensare, a mero titolo di esempio, all’elevato livello di disoccupazione giovanile che conduce a emancipazioni tardive e a volte anche a rinunciare a progetti di vita personali, alla precarietà del lavoro e alla disastrosa mancanza di contribuzione per accumuli pensionistici futuri, alle persistenti disuguaglianze di genere nel trattamento economico e contrattuale, all’inconciliabilità tra tempi di lavoro e tempi di cura, alla compressione dei diritti dei lavoratori, alla diminuzione della rappresentanza e delle tutele sindacali per specifiche categorie (atipici, stagionali, sportivi, a progetto, ecc), a un mondo della formazione spesso distante dalle reali esigenze del mercato del lavoro o a una iper formazione comunque non traducibile in occupazione.
Molte persone vivono inoltre, in questi mesi, una doppia emergenza causata della pandemia da COVID-19; a tutti è stata imposta un’interruzione forzata di molte attività quotidiane e di relazioni sociali (tra cui la mobilità per lavoro) generando nella migliore delle ipotesi nuove possibilità di lavoro in remoto o inattività temporanea e nella peggiore, perdita dello stesso o chiusura delle proprie attività.
Riguardo alla generale crisi del mercato del lavoro, tra le categorie professionali che sperimentano ormai da molti anni una situazione emergenziale c’è senza dubbio il sociologo professionista che nel corso dei decenni è stato da prima delegittimato in numerosi ambiti lavorativi (in cui operava di diritto) e successivamente, ma più recentemente, ha sperimentato anche la difficoltà nel trovare una collocazione pertinente al proprio titolo di studio; da qui la mutazione, l’adattamento o la migrazione di tanti giovani laureati in sociologia in settori di impiego simili o del tutto diversi dal proprio e parallelamente la lotta e l’impegno di alcune associazioni nazionali di rappresentanza della categoria che nel 2017 hanno raggiunto l’importante traguardo dell’elaborazione di una norma tecnica UNI (n. 11695) per la certificazione delle conoscenze, delle abilità e delle competenze per l’attività professionale di chi ha la fortuna di operare come sociologo.
La condizione sin qui fotografata è solo e in generale una grezza sintesi del fenomeno di crisi vissuto oggi da molte persone nel mondo del lavoro e nello specifico è uno spaccato sui laureati in sociologia che non ha la pretesa di essere rappresentativo di questi ultimi ma che vuole solo evidenziare alcuni punti di forza degli stessi: la loro capacità, per formazione accademica, di acquisire oltre alle conoscenze proprie della disciplina anche altre importanti abilità trasversali come il saper osservare le situazioni e i fenomeni da più angolature o da diversi punti di vista e la capacità di aggregare, indirizzare e di costruire reti tra portatori di interesse. Per questa ragione il sociologo è per lo più collocabile, in ambito lavorativo, in settori strategici, organizzativi e nelle cabine di regia di sanità, enti pubblici e simili; tuttavia anche in situazioni più critiche, come può essere una mancata stabilizzazione (o più eccezionalmente uno stop forzato per emergenza sanitaria) egli è capace di adattarsi altrove, con resilienza, perché dotato di quelle abilità trasversali precedentemente descritte; quest’ultimo caso è ciò che spesso sperimentano soprattutto i giovani laureati in sociologia e che come me hanno provato (fortunatamente con successo) ad applicare la stessa ad un settore lavorativo apparentemente lontano dal proprio.
Mi sono laureata alla magistrale in sociologia e ricerca sociale nel 2014 e attualmente mi occupo sia di progettazione sociale sia di sport; la precarietà che ho vissuto inizialmente come sociologa ha creato l’occasione per realizzare due importanti progetti professionali che differentemente non si sarebbero concretizzati: da un lato essere una professionista autonoma a supporto del sociale e dall’altro proseguire part-time con la mia passione per la ginnastica ritmica, sport che ho praticato a livello agonistico fino a diciotto anni e che insegno da quindici. Cinque anni fa ho avuto l’opportunità di applicare in concreto conoscenze e competenze sociologiche allo sport: ho avviato e poi ampliato un settore interamente dedicato alla ginnastica ritmica per un’associazione sportiva dilettantistica che ne era priva. Partendo da un semplice corso ho da prima fidelizzato la clientela, offrendo un servizio con didattica di qualità e ampia promozione, poi ho aumentato l’offerta e i livelli, poi ho allargato, organizzato e coordinato in modo partecipato uno staff di insegnanti dedicate, infine e parallelamente ho creato una solida alleanza con la direzione offrendo piani e rendicontazioni economiche annuali, organizzando spazi, materiali, persone, orari, lavoro, attività didattica, ecc. e monitorando periodicamente la qualità e la soddisfazione percepita dall’utenza pagante (genitori delle atlete). Prima dell’emergenza sanitaria il tutto contava più di 50 allieve iscritte tra i 4 e 20 anni, suddivise in quattro corsi propedeutici o amatoriali ed un gruppo agonistico. Questo risultato è stato possibile anche grazie all’importante e fondamentale lavoro di costruzione di reti di fiducia, di ascolto e di partecipazione attiva degli stakeholder in gioco, famiglie comprese.
In estrema sintesi l’aver sviluppato, sociologicamente parlando, capacità di analisi di insieme e di coordinamento partecipato ha contribuito (insieme ad altro – che qui non andremo ad approfondire) a rendere possibile quanto descritto, se resisterà all’impatto da Coronavirus. In questo tempo di isolamento forzato l’intero staff della palestra in cui opero ha messo in atto tutte le risorse personali e professionali possibili per cercare di mantenere vivo e forte il rapporto di fiducia, di affezione e di fidelizzazione creato negli anni con la clientela; tuttavia questo periodo sarà un importante test per valutare sia la tenuta delle reti sociali (sportive) interne sia per osservare e capire veramente quanto questo virus abbia cambiato e cambierà il nostro modo di vivere e tornare alla normalità, sperando che anche il settore sportivo possa reggere l’urto.

Olga Gaudio

A proposito di emergenza lavoro ai tempi del coronavirus

La testimonianza che vorrei portare riguarda un settore lavorativo all’interno del quale mi sono trovata ad agire per oltre quarant’anni: è il settore della formazione e dell’aggiornamento degli adulti professionalizzati.
Diversi sono stati gli ambiti e i settori all’interno dei quali ho prestato la mia consulenza in qualità di formatrice, ma negli ultimi tempi mi sono concentrata prevalentemente sulla formazione dei giovani che lavorano in aziende manifatturiere, del terziario o della grande distribuzione organizzata, ma anche di persone che, o perchè hanno perso il lavoro o, perchè vogliono misurarsi con realtà diverse da quelle conosciute o già sperimentate, tentano di crearsi un’occupazione lavorativa nuova e pertanto chiedono un sostegno formativo per aprire nuove attività.
La prima realtà, quella dei giovani lavoratori assunti con contratti di apprendistato, forse è quella più a rischio in questa emergenza sanitaria e lavorativa, perché molti di loro lavoravano, e uso l’imperfetto non a caso, nel settore della piccola ristorazione (bar, pizzerie, piccoli ristoranti, piadinerie …) e mi chiedo quanti di loro potranno riprendere le loro attività come dipendenti, quante delle aziende nelle quali lavoravano riapriranno? Sono, questi apprendisti, dei lavoratori non particolarmente specializzati e quindi la loro riconversione quale potrà essere? Come potrebbero reinventarsi un lavoro, un’occupazione, una professione? Chi e cosa potrebbe aiutarli? Il problema ci sarà e sicuramente per molti di loro c’è già.
La seconda realtà forse, paradossalmente, potrebbe essere più “fortunata” nel senso che queste persone che ho avuto modo di conoscere nel percorso formativo che ho fatto con e per loro, avevano già messo in conto di misurarsi con un’incognita grande: quella di sperimentarsi con realtà lavorative e competenze professionali nuove, non conosciute né tantomeno già provate.
Sono uomini e donne, alcuni usciti precocemente dal mondo lavorativo, non per loro scelta (chiusura delle aziende nelle quali lavoravano, esubero del personale…), altri e altre, per scelte personali o familiari, cercano di rientrare in una realtà lavorativa diversa o addirittura nuova (penso a donne che, dopo aver privilegiato una scelta di maternage, decidono che è giunto il tempo di rientrare nel mondo produttivo classico).
Perché dico più fortunata, perché ho visto e sentito in questi “professionisti in nuce” un entusiasmo e una voglia di novità e di rischio, se vogliamo vederla anche sotto questo punto di vista, che mi fa pensare a un approdo più probabile o fors’anche più realizzabile.
Credo che i giovani o anche i meno giovani, come nel caso di questi intraprendenti professionisti debbano, oggi più di ieri, sviluppare competenze e attitudini che li portino necessariamente a ricercare diverse e ulteriori opportunità lavorative per una riconversione professionale produttiva, come ben sottolineava Walther Orsi nell’ultima newsletter.
Per rendere questo minimamente possibile, questi giovani imprenditori di se stessi dovranno, loro per primi, impegnarsi nello scoprire come potrebbero rientrare nel processo produttivo, quali attitudini o talenti pensano di avere, quale potenziale in sintesi vorrebbero sperimentare, ma dovranno anche impegnarsi nella ricerca di opportunità formative che, nella nostra regione esistono e molto spesso sono finanziate, quindi per i partecipanti, gratuite o quasi.
L’esperienza formativa si trasforma quasi sempre in un’occasione di confronto delle conoscenze e dei vissuti pregressi ma è anche un’opportunità per comprendere più facilmente il viaggio che si vuole intraprendere.
Questo è possibile in contesti formativi dove la didattica sia oltre che magistrale anche e, a volte, soprattutto dinamica, esperienziale e la comunicazione tra i diversi attori presenti nell’ “aula” sia attiva, partecipata e produttiva di crescita personale oltre che professionale.
Penso fermamente che queste iniziative di promozione del “sè professionale” debbano essere, innanzitutto riconosciute, e poi valorizzate per non disperdere quelle energie positive e creative che erano presenti prima di questa emergenza e, a maggior ragione, dovranno essere presenti sempre di più, ora.

Paola Cuzzani


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